La copia dal vero della libertà - Editoriale per Il Bernina

Con il nuovo anno il portale Il Bernina, su iniziativa del presidente Bruno Raselli, ha voluto riproporre una serie di editoriali scritti da persone vicine al giornale. Il tema trattato riguarda la Libertà, declinato in diversi ambiti della nostra vita. Questo fondamentale stato di autonomia esistenziale, in questi ultimi due anni, è stato messo alla prova. In che modo? Come è cambiata la nostra vita a livello personale e famigliare, ma anche sociale? Ecco il mio personale contributo.

La mia prima copia dal vero è stata una scatola di fiammiferi: un parallelepipedo rettangolo appoggiato sul tavolo dinanzi a me. Faceva parte dell’esame di ammissione per accedere al Centro scolastico industrie artistiche di Lugano, luogo in cui negli anni a seguire imparai a disegnare corpi, composizioni e ambienti, esercizio che mantenni anche in seguito come allenamento più dello sguardo che della mano. La copia dal vero consiste infatti nel riproporre su carta la realtà, e affinché quest’ultima sia effettiva occorre porsi alla giusta distanza non solo dall’oggetto, ma soprattutto da sé stessi.

Si dice che ognuno vede quello che sa, quindi per poter indagare correttamente la realtà occorre ripulire lo sguardo da stereotipi, credenze, pregiudizi e tutto ciò che può portare il cervello a cercare di adattare l’immagine al proprio sapere (e volere). Mi ricordo che quando il professor Borradori posizionava il soggetto da disegnare, nell’aula calava un gran silenzio. A nessuno veniva in mente di chiacchierare, di dire o pensare bello, brutto, facile o difficile; si contemplava e basta perché l’intento non era esprimere un parere ma fare in modo che la figura si potesse svelare oltre l’osservazione personale, apparendo nella sua autenticità. 

Un modo per avvicinarsi a ciò consiste nel dedicarsi all’attorno, cercare di disegnare non il soggetto ma lo spazio libero che lo ingloba, ossia il vuoto. Se ci si concentra sul pieno ci si ferma lì perdendosi tutto ciò che lo circonda, mentre osservando il vuoto il pieno appare in quanto è lo spazio dedicato all’evoluzione, in cui il movimento dello sguardo e del pensiero possono compiersi. Avventurarsi nel vuoto significa quindi lasciare al mistero l’opportunità di concretizzarsi in una forma nuova, unica, sconosciuta fino a quell’istante, senza dimenticare la comprensione offerta che nulla esiste in sé e per sé perché indissolubilmente legato al contesto in cui si manifesta; in pratica il vuoto unisce, sempre.

Faccio un esempio pratico. Immaginiamo che al centro dalla stanza venga posizionato un appendiabiti, di quelli a stelo con i pomelli sulla parte superiore. Posso agire in due modi: o cerco di disegnare il soggetto ricalcando i contorni della forma, oppure inizio tracciando lo spazio che appare tra il pomello e il volto del mio compagno dall’altra parte dell’aula, la curva che si staglia sulla parete di fondo mentre si interseca con l’armadio, l’intreccio creato con l’angolo del braccio della compagna a fianco e così via, fino a quando l’appendiabiti sarà sorto sul foglio grazie alla relazione avuta con l’attorno. Nel primo caso avrò un oggetto a sé stante che potrei inserire ovunque, senza voce, privo di legami, mentre nel secondo sarà solo quello specifico e unico appendiabiti, ritratto su carta in un’instantanea della realtà a cui ora appartiene e in cui vive.

Proviamo invece adesso a porre sul tavolo al centro dell’aula la libertà. I metodi sono sempre due: o cerco di rappresentarla partendo dal pieno, da ciò che già so, credo, sento e vedo, concentrandomi solo su questo, oppure posso scegliere di avventurarmi negli spazi vuoti che si formeranno nel contesto in cui è inserita. Nel primo caso avrò un concetto a sé stante, statico, senza proporzione e identità se non forse quella disordinata propria delle reazioni istintuali, una libertà preconfezionata simile a una formina di biscotti utile solo se la realtà fosse fatta di pasta frolla. Nel secondo caso avrò invece una libertà scaturita dagli spazi e le intersezioni fra le persone, le circostanze, le possibilità, le conoscenze, le fedi, la società, l’economia, la salute, i poteri, i vari sistemi, il linguaggio, la geografia, i valori, la bellezza, l’urgenza, il tempo a disposizione e così via, e più lo sguardo riuscirà ad abbracciare la complessità più si avrà la capacità di leggere il reale attribuendo la giusta proporzione agli enti coinvolti, condizione indispensabile affinché una libertà creativa, responsabile e consapevole possa manifestarsi.

Quindi che forma potrebbe avere la libertà oggi, inserita nel contesto attuale? Fu allora che la porta si aprì e il professor Borradori (ciao Edy) entrò nella stanza, posizionò la libertà al centro e se ne andò. Fra i presenti calò subito il silenzio; ognuno aveva già iniziato a creare il proprio mondo partendo dal conosciuto per poi allontanarsene e dare spazio al vuoto. Passarono diverso tempo assieme, contemplandosi, scrutando le zone fra di loro e l’attorno, tanto che dopo un po’ iniziarono a parlare, a conoscersi. C’era Bruno, a cui piaceva scrivere poesie e osservare la notte; Rosa, che temeva il vaccino ed era preoccupata per il figlio; Ursula, che da un po’ non riusciva più a dare un senso alle sue giornate; Mario, che finalmente aveva trovato una brava infermiera per il padre; Francesca, che disegnava nuotatori su pezzi di carta riciclata; Cristina, a cui piaceva lasciarsi andare alla deriva nei boschi; Roberto, che correva a piedi scalzi sulla neve; Giovy, che registrava il podcast al lunedì e scriveva dei fatti suoi il martedì; Michele, che per un po’ non ne voleva più sapere di relazioni serie e Giada, che si domandava quanto del suo pensiero si sarebbe colto. Si presero cura l’uno dell’altro, rispettandosi e dimenticandosi del motivo per cui si trovavano lì. A un certo punto scelsero di lasciare l’aula e di tornare ciascuno a casa propria, arricchiti da quelle storie e da presenze concrete. Quando il professor Borradori tornò nella stanza trovò solo i cavalletti da disegno con su ancora appoggiati i fogli di carta rimasti intonsi. Li guardò e sorrise: quindi erano riusciti a coglierla. Quei fogli erano puri come l’ascolto che si erano concessi, accogliendosi al di là dell’aspetto, delle credenze, della provenienza e della cultura, attenzione che permise all’unicità di ogni singola persona di manifestarsi nella sua straordinaria verità. Il professore raccolse i fogli di carta immacolati, vuoti come il vuoto che unisce, l’unico capace di generare dal caos una stella di danzante Libertà. Spense la luce, chiuse la porta e se ne andò.  

Articolo pubblicato su Il Bernina il 4 gennaio 2021, settore abbonati.