6 anni d'Engadina

[6 anni di Engadina] Ecco, oggi è quel giorno lì, quello in cui 6 anni fa chiusi la porta di casa per trasferirmi con Artù a 1’800 metri; era il 17 gennaio 2017. In questa ricorrenza mi sono sempre presa un momento per scrivere, per segnare una lineetta in più sul muro, un po’ come si fa in quei luoghi in cui il tempo non scorre ma accade.

Stamane, mentre pensavo a quale potesse essere l’essenza dell’anno trascorso, mi sono vista seduta sul muretto fuori dall’atelier in una scintillante giornata primaverile. Avevo appena letto un libro sugli ultimi eremiti e ne stavo parlando con il mio amico Roberto, quando ricordo di aver detto “non riesco a capire se devo tirarmi più in su”. Ecco, il senso di quest’anno si trova lì.

Da quella tensione non si è manifestato un eremo ma la sua dimensione, che è quella di un vento che fa fiorire radici e radicare rami, capace di trasformarsi in un istante in un anello di lago da cui nasce il lancio di un sasso, un po’ come accaduto oggi con Roberto che al termine del mio pensiero in atelier è davvero apparso per riportarmi il libro sugli eremiti.

Ecco, nel tempo che scorre di quanto avvenuto in questi 6 anni potrei parlare a lungo, ma visto che mi trovo in quello che accade dico solo che adesso sta nevicando, Artù chiedendo vizi e che la mia famiglia è sempre là, presente come non mai ❤️!

Fsssst (rumore di lineetta incisa sul muro).

P.S: il muro sono io

Pensiero di fine anno, fra non-storie e mosaici nel sottosuolo

Artù è fuori in giardino ad abbaiare al nulla, circondato dal gioco rotto di un coniglio che porta il soprannome di mia nonna senza che colui che gliel’ha dato lo conoscesse. Il fuoco arde nella pigna. Ok Google mi sta deliziando con musica jazz in background e tra poco dovrebbe arrivare Veronica a riportare l’affettatrice.

Vorrei dire cose che però non trovano la necessità di essere espresse. Credo sia come raccontare una non-storia: apri la bocca ma ad uscire è lo spazio fra le parole; il mistero fra tutto il certo; il collante fra i pezzi di questo 2022.

Mi viene in mente l’immagine di quei meravigliosi mosaici appartenenti ad antiche ville sprofondate nel tempo, scoperti per caso secoli dopo. Ecco però il mio, di disegno, quest’anno è stato costruito direttamente lì, nel sottosuolo, parte di un ambiente che ancora non c’è.

Nel frattempo Veronica è arrivata e già ripartita. Artù si è messo a dormire su un tappeto a forma di sole. La pigna sta rilasciando il calore di un fuoco di cui ormai non c’è nemmeno più bisogno. Il pianoforte sullo sfondo indica che la compilation non è ancora terminata. Il tè di Daniela sta rilasciando nell’aria profumo di mela e cannella. Le nuvole di neve di Noah sono accanto e dentro me.

Ho aperto il laptop per dire cose e non mi è uscito che questo. Mi piace quindi pensare siano auguri inespressi che resteranno nascosti lì da qualche parte nel vostro 2023, pronti a venire alla luce in momenti inaspettati, forse anche inutili, soprattutto non pensati, come quando apri la bocca per dire qualche cosa ma ad uscire è solo lo spazio che collega due parole.

Quelle del mio 2022 sono grazie grazia e in mezzo, in quel preziosissimo millimetro bianco che le unisce, ci siete voi con la vostra arricchente e generosa immensità. Quindi , e buona spaziatura a tutti!

5 anni d'Engadina

Ci sono luoghi in cui vai e altri con cui lo fai: andare. 5 anni fa, oggi, io e Artù siamo giunti in Engadina per lei, per quel nostro nuovo noi. Col tempo certi posti ti si intrecciano dentro, divengono pezzi di trama e ordito fra muscoli, sangue e pensieri, come un fil di ferro che a volte sostiene mentre altre strozza, deforma e plasma, nutre e consuma.

Son passati 5 anni ma sembrano tanti quanto quelli che ho; alcuni eventi sono varchi ed è così che accade che semplicemente accadi, perché essere in costante dialogo con foreste, laghi e cielo - quel cielo - a un certo punto arrivi a non farlo più: dire. Nella vastità persino la solitudine si è distratta come molta altra vita, la stessa che a volte ritorna con la prepotenza di una bufera e allora ti rimetti lì e ci riprovi, ad attorcigliarti attorno a qualche appiglio fosse anche solo un sospiro. 5 straordinari anni tutt’altro che semplici, eppure è proprio grazie a questo te che oggi potrei anche lasciarti.

Ci sono luoghi in cui vai e altri con cui lo fai: andare avanti, ovunque sia. 

GRAZIE ❤️.

La copia dal vero della libertà - Editoriale per Il Bernina

Con il nuovo anno il portale Il Bernina, su iniziativa del presidente Bruno Raselli, ha voluto riproporre una serie di editoriali scritti da persone vicine al giornale. Il tema trattato riguarda la Libertà, declinato in diversi ambiti della nostra vita. Questo fondamentale stato di autonomia esistenziale, in questi ultimi due anni, è stato messo alla prova. In che modo? Come è cambiata la nostra vita a livello personale e famigliare, ma anche sociale? Ecco il mio personale contributo.

La mia prima copia dal vero è stata una scatola di fiammiferi: un parallelepipedo rettangolo appoggiato sul tavolo dinanzi a me. Faceva parte dell’esame di ammissione per accedere al Centro scolastico industrie artistiche di Lugano, luogo in cui negli anni a seguire imparai a disegnare corpi, composizioni e ambienti, esercizio che mantenni anche in seguito come allenamento più dello sguardo che della mano. La copia dal vero consiste infatti nel riproporre su carta la realtà, e affinché quest’ultima sia effettiva occorre porsi alla giusta distanza non solo dall’oggetto, ma soprattutto da sé stessi.

Si dice che ognuno vede quello che sa, quindi per poter indagare correttamente la realtà occorre ripulire lo sguardo da stereotipi, credenze, pregiudizi e tutto ciò che può portare il cervello a cercare di adattare l’immagine al proprio sapere (e volere). Mi ricordo che quando il professor Borradori posizionava il soggetto da disegnare, nell’aula calava un gran silenzio. A nessuno veniva in mente di chiacchierare, di dire o pensare bello, brutto, facile o difficile; si contemplava e basta perché l’intento non era esprimere un parere ma fare in modo che la figura si potesse svelare oltre l’osservazione personale, apparendo nella sua autenticità. 

Un modo per avvicinarsi a ciò consiste nel dedicarsi all’attorno, cercare di disegnare non il soggetto ma lo spazio libero che lo ingloba, ossia il vuoto. Se ci si concentra sul pieno ci si ferma lì perdendosi tutto ciò che lo circonda, mentre osservando il vuoto il pieno appare in quanto è lo spazio dedicato all’evoluzione, in cui il movimento dello sguardo e del pensiero possono compiersi. Avventurarsi nel vuoto significa quindi lasciare al mistero l’opportunità di concretizzarsi in una forma nuova, unica, sconosciuta fino a quell’istante, senza dimenticare la comprensione offerta che nulla esiste in sé e per sé perché indissolubilmente legato al contesto in cui si manifesta; in pratica il vuoto unisce, sempre.

Faccio un esempio pratico. Immaginiamo che al centro dalla stanza venga posizionato un appendiabiti, di quelli a stelo con i pomelli sulla parte superiore. Posso agire in due modi: o cerco di disegnare il soggetto ricalcando i contorni della forma, oppure inizio tracciando lo spazio che appare tra il pomello e il volto del mio compagno dall’altra parte dell’aula, la curva che si staglia sulla parete di fondo mentre si interseca con l’armadio, l’intreccio creato con l’angolo del braccio della compagna a fianco e così via, fino a quando l’appendiabiti sarà sorto sul foglio grazie alla relazione avuta con l’attorno. Nel primo caso avrò un oggetto a sé stante che potrei inserire ovunque, senza voce, privo di legami, mentre nel secondo sarà solo quello specifico e unico appendiabiti, ritratto su carta in un’instantanea della realtà a cui ora appartiene e in cui vive.

Proviamo invece adesso a porre sul tavolo al centro dell’aula la libertà. I metodi sono sempre due: o cerco di rappresentarla partendo dal pieno, da ciò che già so, credo, sento e vedo, concentrandomi solo su questo, oppure posso scegliere di avventurarmi negli spazi vuoti che si formeranno nel contesto in cui è inserita. Nel primo caso avrò un concetto a sé stante, statico, senza proporzione e identità se non forse quella disordinata propria delle reazioni istintuali, una libertà preconfezionata simile a una formina di biscotti utile solo se la realtà fosse fatta di pasta frolla. Nel secondo caso avrò invece una libertà scaturita dagli spazi e le intersezioni fra le persone, le circostanze, le possibilità, le conoscenze, le fedi, la società, l’economia, la salute, i poteri, i vari sistemi, il linguaggio, la geografia, i valori, la bellezza, l’urgenza, il tempo a disposizione e così via, e più lo sguardo riuscirà ad abbracciare la complessità più si avrà la capacità di leggere il reale attribuendo la giusta proporzione agli enti coinvolti, condizione indispensabile affinché una libertà creativa, responsabile e consapevole possa manifestarsi.

Quindi che forma potrebbe avere la libertà oggi, inserita nel contesto attuale? Fu allora che la porta si aprì e il professor Borradori (ciao Edy) entrò nella stanza, posizionò la libertà al centro e se ne andò. Fra i presenti calò subito il silenzio; ognuno aveva già iniziato a creare il proprio mondo partendo dal conosciuto per poi allontanarsene e dare spazio al vuoto. Passarono diverso tempo assieme, contemplandosi, scrutando le zone fra di loro e l’attorno, tanto che dopo un po’ iniziarono a parlare, a conoscersi. C’era Bruno, a cui piaceva scrivere poesie e osservare la notte; Rosa, che temeva il vaccino ed era preoccupata per il figlio; Ursula, che da un po’ non riusciva più a dare un senso alle sue giornate; Mario, che finalmente aveva trovato una brava infermiera per il padre; Francesca, che disegnava nuotatori su pezzi di carta riciclata; Cristina, a cui piaceva lasciarsi andare alla deriva nei boschi; Roberto, che correva a piedi scalzi sulla neve; Giovy, che registrava il podcast al lunedì e scriveva dei fatti suoi il martedì; Michele, che per un po’ non ne voleva più sapere di relazioni serie e Giada, che si domandava quanto del suo pensiero si sarebbe colto. Si presero cura l’uno dell’altro, rispettandosi e dimenticandosi del motivo per cui si trovavano lì. A un certo punto scelsero di lasciare l’aula e di tornare ciascuno a casa propria, arricchiti da quelle storie e da presenze concrete. Quando il professor Borradori tornò nella stanza trovò solo i cavalletti da disegno con su ancora appoggiati i fogli di carta rimasti intonsi. Li guardò e sorrise: quindi erano riusciti a coglierla. Quei fogli erano puri come l’ascolto che si erano concessi, accogliendosi al di là dell’aspetto, delle credenze, della provenienza e della cultura, attenzione che permise all’unicità di ogni singola persona di manifestarsi nella sua straordinaria verità. Il professore raccolse i fogli di carta immacolati, vuoti come il vuoto che unisce, l’unico capace di generare dal caos una stella di danzante Libertà. Spense la luce, chiuse la porta e se ne andò.  

Articolo pubblicato su Il Bernina il 4 gennaio 2021, settore abbonati.

Pensiero del 12 settembre 2021

Ci sono libri che giungono così, come caduti dal cielo. Dalle prime parole inizio a ringraziare e quando li termino li tengo a lungo in mano per poi portarli alla fronte, un po’ come si fa con la roccia umida quando si è accaldati; fronte su fonte. Sono libri che tornano senza essere mai passati; sono libri che in fondo sapevi che avresti rivisto anche se mai conosciuti; sono libri che ti permettono di penetrarli in quanto ogni parola diviene gradino di una scala, solitamente lunga. 

Stamane mi sono svegliata con l’atmosfera addosso e ho fatto colazione così: senza rumori, solo sole misto a nebbia, Artù addormentato e caffè. Prima di uscire ho presto fra le mani quel libro alla ricerca di un passaggio preciso che avevo voglia di portare con me durante la passeggiata; un paragrafo, nulla più, ma con molti appoggi.

Qui è già bassa stagione; le facce che si incontrano stanno tornando ad essere le solite; poche. Al mattino si può assistere allo svelamento del panorama con l’arrivo del sole e la brezza è puntuale, quella capace di smuovere gli alberi a frammenti dotandoli di arti. Artù inoltre mi accompagna senza più rincorrere gli abitanti del bosco; ormai con l’età il suo divertimento sono rimasta io. 

Quando però ho aperto la porta dell’atelier per incontrare tutto ciò ho trovato a terra un pettirosso, probabilmente schiantatosi su una finestra mascherata da cielo. Era ancora vivo ma non capivo bene quanto. L’ho preso tra le mani, che il suo abbandono ha permesso di tramutare in protezione. Siamo rimasti lì così, per un bel po’: lui, il mio essere nido e io. Quando ho visto che si stava riprendendo gli ho creato un riparo con un asciugamano e ve l’ho adagiato nel mezzo, in modo che il suo mondo potesse tornare a prenderlo nella forma che la Natura avrebbe deciso.

Ho poi chiamato Artù e sono partita. Giro del lago, immagini, bacche, onde, luce, pensieri, volti, legami, sole, pane e di nuovo un caffè. Tornata a casa ho visto che il pettirosso non c’era più, e dallo spazio vuoto lasciato al centro dell’asciugamano è giunto invece lo schiocco della rottura, quel colpo violento di quando la realtà incede, dove fondamentalmente non cambia nulla se non che non la stai più osservando da dietro un vetro, anche se vetro non è. 

È stato come tornare senza essere mai passati.
È stato come rivederlo anche se quell’istante non l’avevo ancora conosciuto.
È stato come penetrarlo, e a lungo.
È stato come appoggiare la fronte alla fonte e, per attimo, bere.

Il testo di stamane: “Ma oggi guardavo il cancello della cascina in cui vivo, con i rametti di agrifoglio e di pino messi da poco tra le sbarre per dire “ci siamo anche noi”, e un pettirosso si è posto proprio lì - sembrava la tessera mancante di un mosaico di neve e creature -, per un attimo solo, guardandosi attorno, un attimo perfetto, poi ha ripreso il volo. Non è rimasto il vuoto, ma l’infinito variabile delle possibilità”. Da Questo immenso non sapere di Chandra Candiani.

#BIBLIOCOLTURA, nuova proposta letteraria de “Il Bernina”

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Dopo l’annuncio della pubblicazione delle recensioni firmate dal direttore uscente della Radiotelevisione della Svizzera italiana, Maurizio Canetta, la rubrica “Leggo un libro e te ne parlo” si arricchisce di un’altra firma di spicco. Infatti, l’artista, giornalista e fotografa Giada Bianchi, già collaboratrice del nostro giornale, propone ai lettori una serie di presentazioni di testi molto originali, dal titolo #bibliocoltura.

Ciao Giada, puoi spiegarci in cosa consiste la tua recensione? Qual è l’obiettivo che ti poni?

Quando ho iniziato a scrivere recensioni mi sono imposta un limite massimo di 15 secondi. La sintesi, per me, è un modo di circoscrivere lo spazio costruito e occupato dalla narrazione e, attraverso quello spiraglio, osservare. Questo mi permette di trasformare le sensazioni in essenza, di coglierne il respiro vitale. Mi piace immaginarle come un soffio, un principio originario da cui si può in seguito sviluppare il gesto della lettura o dell’evocazione, a seconda se già si conosce il testo. Ho scelto il titolo #bibliocoltura e ho suddiviso le recensioni in descrizione, ambiente, germoglio e scheda tecnica come accade in botanica proprio per quest’idea di coltivazione, di crescita e nutrimento che la lettura dà, come pure le immagini scelte per sfondo alla copertina sono in tema con il racconto (e il) raccolto.

Da dove nasce questa passione?

Per me leggere è uno stato, una postura necessaria in cui mi ritrovo a imparare, divertirmi, distrarmi, innamorarmi, studiare, emozionarmi, dubitare e stupirmi; è uno spazio in cui vedere e vedersi, sempre diverso e diversa. Con l’avvento delle stories sui social network ho semplicemente deciso di sfruttare questo mezzo per diffondere ciò che coglievo là dentro. Inoltre scrivere una recensione di 15 secondi è sì un gioco ma soprattutto un esercizio. Quando non hai tempo per descrivere né la storia né i personaggi né l’argomento nel dettaglio puoi fare solo una cosa: creare il vuoto e aspettare, e ogni volta è una scoperta straordinaria; il soffio appare sempre da sé.

A che tipo di pubblico sono destinate le recensioni?

Non mi rivolgo a un pubblico specifico, ma lascio piuttosto siano le recensioni a decidere quale strada percorrere per giungere al lettore. Cerco di creare descrizioni visive in modo da offrire un’immagine simbolica del racconto, che proprio in quanto tale verrà recepita dal singolo nella forma che più gli appartiene; sarà quindi egli stesso a personalizzarsele tramite l’immaginazione, creandosele a misura di sé stesso.

Ci sono tipologie di libri o argomenti che prediligi?

Leggo molti libri contemporaneamente e di generi diversi: romanzi, saggi, filosofia, erotismo, società, gialli, classici, biografie, spiritualità, noir, sceneggiature, eccetera, che scelgo in base all’orario, l’umore e la stanchezza. Il palinsesto offerto sarà quindi vasto, e considerata la brevità dello scritto spero sappiano almeno incuriosire quel tanto da invogliare qualcuno a provare a sbirciare oltre i propri abituali interessi e magari chissà, scoprire e scoprirsi in un’insolita meraviglia.

Di Marco Travaglia de Il Bernina, pubblicata il 20 marzo 2021 (leggi il contenuto riservato agli abbonati sul portale)

Ad Albachiara per parlare di #artenarraviva e #laforza

Domenica 31 maggio 2020 ho avuto l’opportunità di parlare con Jenny Alessi ai microfoni di Rete Uno del mio concetto di #artenarraviva, del dipinto #laforza nato durante il periodo di lockdown da coronavirus, delle #biosfera, dei miei progetti per il futuro e di lanciare persino un appello affinché la forza collettiva realizzata possa trovare un ambasciatore che voglia aiutarmi a diffonderla nell'atmosfera.

Ho montato l’intervista in video, giusto per poterla pubblicare più facilmente. Buon ascolto :-)

Uscire dal lockdown pattinando nella Divina Commedia

Ci son cose che restano lì, nel cassetto, e quando le riprendi in mano ti sembra che quel tempo di riposto le abbia completamente cambiate ma non nella forma, nel senso. Come parlare di paure, di ignoto, di abbandono, di vulnerabilità, di vita e di morte e di uscita prima che tutto ciò accadesse, e per tutto intendo lui, prima del covid-19. E così, fra ciò che era e ciò che sarà, vi propongo la puntata di #cartolinebyme scritta in gennaio: che sia di buon auspicio per ciò che ci attende domani quando molti di noi potranno ritornare a riuscire a riveder le adorate stelle.

TESTO CARTOLINA:

Caro te,

non è la prima volta che accade, è un evento a cui ho già assistito ma fino ad ora osservandolo dalla riva, con i piedi ben piantati a terra. Quest’anno il freddo e le molte giornate soleggiate hanno permesso alle persone di pattinare sulle superfici ghiacciate dei laghi per diversi giorni. 

All’inizio mi son detta “non accadrà mai”, per passare da un “però… forse” a “ma dai, magari riesco”. Dopo una settimana ero già al “devi” fino a quando un bel mattino ho telefonato a mio padre per comunicargli in tono agguerrito “vado ad affrontare le mie paure”, preparandomi ad espugnare la serenità rinchiusa da troppo tempo oltre quelle rive. E così ho fatto.

Son passati più di 30 anni dall’ultima volta che ho indossato un paio di pattini, ma diciamo che in questo caso i miei timori erano decisamente focalizzati altrove, anche perché la filmografia moderna non è che mi abbia proprio aiutato a instaurare un rapporto di fiducia con il ghiaccio lacustre.

E così, munita di lame ai piedi, ad appena due metri dalla riva mi vedevo già piombare sul fondo come Lester Nygaard nella scena finale di Fargo, mentre nella trasparenza della lastra m’è sembrato di scorgere la faccia di Rasputin ripescato dal fiume Malaja Nevka per non parlare di James Bond, che in Skyfall il ghiaccio addirittura lo ruppe e vi nuotò sotto per scappare dai nemici ma insomma: di agente 007 ce n’è soltanto uno, e non sono io.

Schwarzeis lo chiamano, giaccio nero, a causa della profondità ben visibile che lo sostiene, e del nero ha non solo il colore ma persino la consistenza, quella densa e appiccicosa di cui è composto l’inconscio e in cui possono comodamente annidarsi tutte le più ancestrali paure: da quella dell’ignoto alla fragilità degli istanti, dalla caducità della vita all’inadeguatezza del ruolo, dall’abbandono alla morte. 

E io lì, in mezzo a un lago a cercare di affrontare tutto ciò da sola anche se sola alla fine non lo sono stata mai. Già, perché quando sono finalmente riuscita ad acquisire un po’ di sicurezza e a lasciarmi andare alla meraviglia di fluttuare sulla superficie trasparente poi la sua presenza l’ho sentita davvero. 

Ho iniziato a percepirla nella voce tonante che i movimenti del ghiaccio trasformano in canto, per poi trovarla nella rete di venature che rimandano la luce del sole ad ogni passaggio rendendolo vivo, pulsante ma, soprattutto, è stato quando ho accettato la sua natura composta da solida vulnerabilità che ho potuto iniziare veramente a danzare con lei, con la vita intendo.

È bastato allargare le braccia e in un attimo tutte le paure e le incertezze che mi bloccavano al suolo sono divenute il passaggio verso profondità sempre misteriose ma di natura decisamente più accogliente. E via volare, solcando la superficie ghiacciata dove mi sembrava persino di riuscire ad arrivare a toccare le cime delle montagne che si stagliavano tutt'attorno, e quanta leggerezza, gioia, stupore e ossigeno, di quello buono, di quello capace di fecondare lo spirito.

È proprio vero che a volte per superare i timori occorre smarrirsi, andare oltre i propri limiti per perdersi su oscure acque laddove la retta via diviene spinta, respiro ed esperienza. D‘altronde anche Dante e Virgilio hanno dovuto attraversare la superficie ghiacciata del lago Cocìto prima di sortire dall’inferno e approdare ad una riva che, fosse stata questa quella del lago di St. Moritz, sarebbe stato guardando il cielo riflesso sullo Schwarzeis, che avrebbero potuto riveder le stelle.

Ora ti saluto

Un abbraccio da qui

Giada

Quattro chiacchiere con Massimo Gioscia di This is not Torino

Che poi davvero, a volte sembra di essere seduti attorno a un tavolo di un bar a chiacchierare del più e del meno, come di memoria collettiva e di senso dell’arte, e poco importa se si tartaglia, se i pensieri si ammucchiano e il gesticolare prende una strada tutta sua ;-).

Ecco il risultato di una piacevole chiacchierata avuta con Massimo Gioscia di This is not Torino, un progetto artistico-culturale interessante posto in un teatro abbandonato.

Al Lej da Staz per ballare con la realtà

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Ci son giorni in cui più di altri mi piace giocare con la quotidianità, come quelli dove il calendario riporta festività legate a rituali (ne esistono forse senza?), siano essi cristiani, pagani, sociali, naturali o magici poco importa, che conta è la possibilità che si concede loro di manifestarsi attraverso la meraviglia.

E così, in un mattino di Candelora in cui si celebra il ritorno alla luce, si scaccia l’inverno al risveglio delle marmotte e per di più in data palindroma come non succedeva da più di mille anni, mi son recata al Lej da Staz munita di tentativi e presenza.

Che poi i rituali lo ammetto me li invento; prendo un po’ di suggestioni da qui, pesco là, ci aggiungo un po’ di quel senso ma non troppo, abbondo di spazi vuoti affinché ci si possa passare attraverso (e non solo con i pensieri) e alla fine niente, a stare lì così qualche cosa primo o poi arriva; arriva sempre.

Son di quei momenti che all’inizio ti dici caspita che coincidenza ma solo perché ti hanno insegnato che non poteva essere altro che quello, ma per fortuna ti basta guardare negli occhi chi ti sta conducendo e insomma, adesso quella cosa lì la chiamo danza poi fate voi, nel frattempo io continuo a ballare con la realtà.

Quando il respiro dell'inverno accarezza la superficie del lago

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Ha sicuramente a che fare con lo scorrere del tempo ma non con quello che inevitabilmente sfugge, direi piuttosto con quello che fortunatamente resta grazie al fatto d’averlo vissuto.

Osservare la chiusura del lago in inverno per me è di un fascino incredibile; credo sia un po’ come potersi prendere cura dei propri respiri, uno per uno, dandogli forma. In fin dei conti siamo tutti una presenza che si amplia nell’esperienza; superfici solide che fluttuano sul letto della vita attraverso le quali, in alcuni casi, si può persino scorgere il fondo dell’abisso.

E niente, ne manca un pezzettino giù là in fondo, verso Meierei, e poi anche per quest’anno si può dir chiuso 😍.

Intervista per Microfoni Evasi, e tutto appare

Dialogare aiuta a focalizzare i pensieri. Per questo credo molto nella condivisione: perché oltre ad amplificare amplia, ma affinché questo possa accadere è necessario che il soggetto prima possa apparire attraverso il dialogo.

Di seguito l’intervista rilasciata giovedì 19 dicembre durante la trasmissione Microfoni Evasi su Enjy St. Mortiz condotta da Filippo e Allegra, grazie ai quali ho avuto la possibilità di vedere, parlando.

Oltre del mio trasferimento in Engadina, di momenti catartici, di natura, d’arte, di sculture e molto altro c’è stato persino un collegamento con lo scrittore Patrick Mancini di cui ho recentemente disegnato la copertina del suo ultimo libro. Insomma: buona visione/ascolto :-)

Omaggio alla scultura Il cane di Alberto Giacometti

Ehi tu, cane, essere libero dalla gabbia della società ma non da quella in cui è racchiuso ognuno: la realtà. Istinto puro, fedele amico, ti muovi per il mondo corrodendoti come tutti noi a causa dell’atmosfera, che null’altro è se non il riflesso di un’esistenza fugace, laddove nella distanza tutto accade. 

È un luogo privo di staticità, colmo di un fluire denso in cui respirare significa annegare senza morire, non subito almeno. A noi umani tocca assorbire coscientemente l’elemento che ci consuma, mentre tu semplicemente procedi annusando la fame, le botte e quella cagna in cui vorresti affondare il sesso, non certo questo nostro divenire ombra e infine punto, posto nell’addio.

A guardarti camminare così, cercando dove lasciare un segno, c’è da chiedersi quanto inseguire un significato sia utile anche solo per rallentare l’inevitabile sgretolamento. A te questo non importa, alzi la gamba, pisci e sei lì, per te e per i tuoi simili che arriveranno a breve, aggiungendo il loro esserci al tuo. 

Forse le persone non sono altro che questo: angoli di muro, spigoli di immensità pronti a raccontare ai posteri ciò che è stato e che rimarrà, in una somma di presenze che nessuna pioggia è mai riuscita a cancellare. 

Vieni cane, avvicinati io non ci riesco, le catene della mia stessa temporaneità mi impediscono di andare altrove. 

Vieni cane, fatti accarezzare, fammi sentire quanto sia morbido non sapere, quanto sia soave aver per padrona l’eternità.

Testo ideato per un concorso legato a un’esposizione di Alberto Giacometti, in cui si chiedeva di scrivere un racconto legato a una qualsiasi scultura dell’artista.

#promessisposi: nascita di una copertina

Ascoltare, accogliere, vedere, plasmare e riconsegnare; questo è per me il processo creativo. È un percorso che applico alla pittura, scrittura, fotografia, grafica e a qualsiasi compito espressivo mi venga offerto o decida di affrontare. Che meraviglia quindi quando mi viene proposta una nuova opportunità per scoprire e di conseguenza scoprirmi, perché ogni volta si aggiunge un’esperienza in più alla propria cassetta degli attrezzi, utile per tutto ciò che verrà. 

Ricordo ancora il messaggio ricevuto da Patrick in febbraio: “Ciao Giada, ti comunico che ho finito di scrivere un secondo libro. Ho pensato a te per la copertina anche perché mi ricordo come mi avevi motivato la prima volta. Quindi mi sento in debito morale verso di te. E poi mi piace la tua stravaganza e può uscire qualche cosa di strano e interessante. Ci stai?”.

Ovviamente ho detto sì. E che meraviglia leggere non per evadere, imparare o confrontarsi ma per immortalare. Man mano che la storia si srotola i personaggi, la trama, i rapporti, le tensioni, i dialoghi e l’ambientazione emergono in un quadro che alla fine inevitabilmente svanirà ma è lì che inizia il lavoro; è dal disegno delle impronte lasciate al suolo che emergerà la copertina, come se il racconto fosse rimasto impresso in un riflesso divenendo poi bagliore.

Spero quindi di aver ben ascoltato, accolto, visto, plasmato e riconsegnato il thriller di Patrick Mancini, Fontana Edizioni, che trovate in questi giorni in vendita nelle librerie di tutto il Cantone Ticino oppure online cliccando qui.

Ed ora ciao “#promessisposi - stavolta tocca a te” ciao, che il successo ti accompagni e grazie ancora a Patrick per questa magnifica opportunità.  

La copertina:

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Quei 2 centimetri posti sul Punto d’appoggio Bernina

Scesa dall’auto mi son subito ritrovata in compagnia di un forte vento, gelo, nuvolosità e qualche goccia d’acqua mista a neve, come a voler annunciare l’inverno che verrà, che da quest’anno potrà essere affrontato con un’arma in più: il nuovo punto d’appoggio dell’Ufficio tecnico sul Bernina.

Costi, progetto, metri cubi, pareri e informazioni varie si possono trovare un po’ ovunque, io invece vi vorrei parlare di un luogo anche se in verità si tratta di un gesto capace di generare meraviglia, di un vero e proprio atto poetico: la camera obscura.

La costruzione del Centro è sovrastata da una torre cilindrica in cui si trova il silo per il sale e il pietrisco, sulla cui cima è stata creata una camera oscura, un locale senza finestre il cui unico collegamento diretto con l’esterno (oltre la porta) è dato da un foro di 20 mm, grazie al quale la vastità può entrare.

Foto by camera-obscura.ch

Foto by camera-obscura.ch

È sufficiente porsi sotto di esso, spegnere la luce e attendere gli occhi si abituino all’oscurità. A poco a poco il paesaggio inizia ad apparire sulle pareti anche se la sensazione è che esca da esse, che sia il luogo stesso a trasudare l’immagine.

La proiezione avviene in modo naturale, senza lenti, illuminazioni o meccanismi particolari; il tutto si appoggia sul principio della camera oscura, restituendo lo scenario alpino con il Piz Cambrena  capovolto e invertito, anche se a me è sembrato giusto così.

Quale serenità poter guardare per una volta il cielo negli occhi e avere vette più vicine all’essere umano, alzare le mani non più solo con l’intento di afferrare ma di poter toccare, di poterle affondare in una terra posta sopra la testa in cui ogni nuovo germoglio possa scendere per arrivare anziché salire per allontanarsi. E dei piedi che dire? Quanta leggerezza accompagnata dalla voglia di riuscire a camminare sempre così, per il cielo del mondo.

In pratica in quel luogo si può vedere l’ombra della luce o meglio l’ombra nella luce, se poi vi dovesse capitare di essere soli o godere di un po’ di silenzio, vi assicuro che lo si può persino sentire il lento e inesorabile suono dell’incedere del tempo, che nemmeno i metri di neve che a breve inizieranno a posarsi sul passo del Bernina riusciranno ad attutire.

Ma per fortuna per rimediare a ciò ci saranno loro, coloro che ogni anno come dei coraggiosi Mosè apriranno continui varchi in questo bianco mare affinché ognuno possa raggiungere la propria terra promessa, che per i più corrisponderà a un volto, che per i più significherà riuscire a tornare come sempre a casa. 

A tutti voi grazie, ma grazie davvero.

Articolo pubblicato su Il Bernina il 7 ottobre 2019.

Quella sosta obbligata alla curva di Montebello

Quando mi reco dall’Engadina a Poschiavo ho una tappa fissa che non manco mai, come quando dal Ticino andavo in Svizzera Interna, dove Ovomaltina e nussgipfel all’autogrill di Raststätte erano una tradizione che rasentava la scaramanzia. Ma in questo caso non si tratta di un ristorante, un parco o una terrazza, no: è una curva. 

Ovvio, esiste lo spazio per potersi fermare e per fortuna, perché proprio non si riesce a passarci davanti senza nemmeno uno stop. E sì che in quella sosta non vi è nulla se non proprio quello, il nulla. Sarà forse questo il motivo per cui non si sente mai nessuno parlare. 

Uno scende dall'auto, fa un paio di passi, alza lo sguardo e sta lì, così, a respirare; al massimo scatta una foto o si mette le mani in tasca. Una volta ho visto addirittura un Signore tornare in auto a spegnere la musica e poi rimettersi là, in estatica contemplazione.

Non saprei dire se sia una sensazione che faccia stare bene o male, semplicemente fa, come essere lì ma non solo, e ritrovarsi nel contempo un po’ ovunque.

A dire la verità però c’è una cosa che faccio prima di rimettermi in viaggio, ed è lanciare un desiderio come si fa con le monete nelle fontane, solo che questa è grande quanto il mare, solo che questa è il Bernina.

Articolo pubblicato su Il Bernina il 28 settembre 2019.

Quando le persone diventano giganti

[Pensieri del rientro] Qui c’è quel profumo lì. Roberta una volta mi disse “son tornata per l’odore dei boschi”, ma non capivo. Ora invece sì, lo sento, come sento quello del sole autunnale. E poi i corpi. Mamma mia che meraviglia con le loro forme, espressioni, movimenti! Per tre giorni mi son chiesta il perché di questa intensità in quanto non è che in Engadina ne manchino, poi però ho pensato il tutto fosse dovuto a una questione di rapporto, di confronto.

Qui manca lei: qui manca l’Alta Montagna.

In città i corpi possono essere tali, diventare giganti grazie alla loro particolarità: strutture di carne e sangue fra palazzi di cemento e scritte. Mentre su là insomma, un corpo nella vastità si perde per ritrovarsi a volte nella dimensione dello spirito, in cui si sa non esiste grandezza se non forse attraverso la sua dissolvenza.

Mi chiedo quindi se le persone in città lo capiscono di essere quella cosa lì; chissà davvero se le persone qui lo sentono di divenire orizzonte, chiave di ogni immensità.

Pensiero scritto il 15 settembre 2019, in Piazza della Riforma a Lugano.

Perché son venuta in Engadina e molto altro, raccontato per il blog di Giovy

Oggi vi parlerò del luogo in cui abito e del perché ho deciso di trasferirmi qui attraverso l'intervista rilasciata a Giovy per il suo blog Emotion Recollected in Tranquillity. È sempre bello confrontarsi con delle domande, in quanto permettono di riflettere e portare alla luce sensazioni presenti ma magari mai tradotte in parole.

Giovy Malfiori inoltre è una di quelle conoscenze che mi ha portato la rete; ho avuto modo di ammirarla prima online e poi di persona e sì: è davvero una persona speciale.

Per lei avevo già parlato tempo fa della mia esperienza in Nepal: al seguente link eventualmente trovate il collegamento anche a quell'avventura. Buona lettura, ed evviva le domande 😄.

Benvenuto Living Coral Pantone 16-1546, il colore dell'anno 2019

Come ogni anno il Pantone Color Institute ha decretato il colore dell’anno venturo, che per il 2019 si orienta verso un rosa-corallo arancione che già amo.

L’azienda lo definisce così “in risposta all’attacco della tecnologia digitale e dei social media che si integrano sempre più nella vita quotidiana, l’individuo è alla ricerca di esperienze autentiche che gli consentano connessione e intimità. Socievole e vivace Living Coral incoraggia l’attività spensierata, simbolizza l’innato bisogno di ottimismo che c’è in tutti noi”.  

E cosa più dell’Engadina può offrire tutto ciò? Omaggio quindi al Pantone 16-1546, e che connessione e intimità nel 2019 possano davvero dilagare ovunque ;-).  

Engadina in Pantone 16-1546:

Il video di presentazione del Living Color:

Momenti sospesi

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Dicono che a ogni essere umano sia destinato un piacere che si tramuterà in tormento; a me sono toccati i momenti sospesi. Il primo che mi capitò di incontrare fu attorno ai quindici anni. Era estate. Mi trovavo in giardino all’ombra di un ciliegio a leggere una rivista, quando improvvisamente venni risucchiata verso l’alto. Sotto di me apparve un’imponente foresta di conifere da cui udivo provenire cinguettii, zoccoli che si muovevano sul terreno ricoperto da aghi di pino, fischi di marmotte in allerta e qualche colpo dato alla corteccia. Il profumo di resina giunse fin lassù, accompagnato dall’odore di selvaggina che mi fece ricordare il sapore del sangue, ed ebbi subito fame. D’altronde quel giorno mi ero alzata in volo per andare a caccia, non per sfogliare riviste e leggere pubblicità. Bastò questo pensiero per riportarmi in giardino dove passai il resto della mattinata seduta al sole, visto che l’ombra ormai non c’era più. 

Cos’era accaduto? Gli anni seguenti provai a capire senza riuscirci mai. La seconda esperienza mi sorprese per le strade della città, mentre stavo osservando l’esposizione di pasticcini di una confiserie. Me ne accorsi dall’odore salmastro; mare? Impossibile, mi trovavo a chilometri di distanza. Ne cercai il motivo quando i piedi iniziarono a sprofondare nella sabbia: sorrisi. Eccolo, dopo tanto aspettare stava di nuovo accadendo. Nella vetrina vidi il mio riflesso dietro cui si aprì un orizzonte marittimo. Sentii il rumore delle onde e l’acqua bagnarmi il vestito. Volevo chiudere gli occhi per meglio godermi l’istante ma avevo timore potesse svanire, e fu un errore. “Signora desidera?”. La commessa era uscita in strada, probabilmente non gradiva sostassi così a lungo davanti ai suoi dolciumi. “Servite anche del whisky?” le risposi. Passai il resto del pomeriggio seduta in quel locale a osservare il mare, anche se ormai non lo vedevo più.

Dunque i momenti sospesi esistevano davvero, ma dove si trovavano, come raggiungerli o crearli? Nel corso della vita ci passai accanto diverse volte; allungavo la mano cercando di afferrarli ma dovevo accontentarmi di sentirne il lembo scivolare via, fino al giorno in cui loro tornarono a cogliere me. Era notte fonda. Vista l’età dormire era ormai diventato un lusso, così uscivo a passeggiare. Giunta vicino al lago mi accorsi che qualcuno mi stava abbracciando. Naturalmente non lo vidi, ma sentii il cappotto ruvido sfiorarmi la guancia; portava il dopobarba e la sua anima sapeva di terra, quando sussurrò “va bene così”. In quell’istante divenni occhio di falco, bramito di cervo, fuga di lepre, morso, sangue, succo di ciliegia e marea. Mi abbandonai a quel rassicurante ed eterno abbraccio, e non tornai mai più.

Testo pubblicato sull’Almanacco del Grigioni Italiano 2019.