Una cosa bella

Che poi io ne sono sicura che TUTTI quelli che hanno letto l'ultimo arrivo di ARBOKgroup alla fine del racconto quella cosa lì sono andati a controllarla veramente (come me). E poi lo ribadisco: 'sta cosa che arrivi a casa guardi in buca e in mezzo alle fatture ci trovi un racconto da leggere durante l'aperitivo o la colazione è una figata pazzesca. Immagino comunque sia una forma adatta persino per il caffè del dopo pasto o la merenda, ma essendo condizioni mai sperimentate preferisco in questi casi avvalermi della facoltà della riserva. Poi dai... è a chilometro zero, non inquina, diverte, rallenta, sostiene e unisce... cioè... ve lo devo proprio dire? Che poi io davvero questi qui manco li conosco (Genetelli a parte... ma ormai chi non lo conosce?), è solo che la trovo una bella cosa, e ecco. E punto.

Il Boléro di Oliviero

Oliviero si alzò come tutte le mattine di buon’ora. Si lavò con cura, fece una leggera colazione e indossò i vestiti da lavoro; il tutto si svolse in rigoroso silenzio e lasciando al neonato giorno il compito di rischiarare l’ambiente. Erano le sei e lui era pronto. Lo specchio appartenuto a sua nonna capeggiava sulla parete a lato della porta. Oliviero prima di uscire vi si fermò di fronte, si guardò a lungo negli occhi e poi più giù, dentro, per testare se ciò di cui necessitava era ancora al suo posto. C’era: uscì. Erano le sei e trenta di una mattinata fresca e serena, dove l’odore di terra del primo autunno si mescolava ai residui di un temporale notturno appena trascorso. Ai piedi dell’orizzonte il Mendrisiotto appena toccato dal sole prese posto e attese come sempre che lo spettacolo iniziasse. Oliviero pose uno guardo alla pianura e chinò leggermente il capo, in segno di saluto. Respirò. Si voltò e si diresse verso Casa Rosalba. Durante il tragitto notò che Arnoldo il fornaio, Fabiana e zia Colette erano già in posizione, mentre degli altri intuì la concentrata presenza. Il portone in legno della proprietà era aperto. Varcò la soglia e si posizionò al centro della corte; Carla la postina gli era accanto. Davanti a lui trovò Miguel, Ottavio, Annalisa e Sebastiano, la famiglia Valsangiacomo al completo, gli ultimi a intervenire. Si guardarono negli occhi: erano sintonizzati, si poteva partire. Le sei e quarantadue. Olivierò estrasse dalla giacca una bacchetta, alzò gli occhi al cielo e diede il via con un leggero movimento del braccio. Carla cominciò a battere sul tamburo “ta taratatatta ta, taratatatta ta, taratatatta ta”, lieve. A inizio paese Arnoldo posizionò il faluto fra le sue labbra e con una leggerezza degna del più soffice soufflè attaccò il pezzo: “fiiiiiiii fi fi fifififififfififiiiiiii fifififififififiiiiii fifififififififififiiiii fifififfififiiiii”. Dall’altra parte della via Costantino il fabbro attese la fine dell’esecuzione prima di iniziare a soffiare nel clarinetto; da Casa Rosalba nel frattempo proveniva costante il suono del tamburo di Carla. A quel punto da corte Soldini sopraggiunse un fagotto, a cui seguì il suono del clarinetto piccolo della Signora Katia, la padrona del B&B ParisCocò le plus chic du monde entier. Dalla piazza della Chiesa Costanzo diede vita al suo oboe d’amore, a cui seguirono Fabiana e zia Colette con tromba e flauto. E poi un sax tenore, un sax sopranino e soprano, poi celesta ottavini e corno, e poi ancora clarinetti oboi e trombone, chi da una corte, chi da una via o chi dalle vigne dietro casa. Oliviero dalla sua postazione continuava e dirigere il sopraggiungere di nuovi strumenti, fino a quando diede spazio ad archi e fiati posizionati proprio alle sue spalle. Mancava poco: diede l’ultimo ingresso alla famiglia Valsangiacomo. Miguel Ottavio Annalisa e Sabastiano si alzarono dalle sedie e archi e fiati già bollenti per l’attesa sbocciarono nel loro splendore. E “taaaaaa taratatatataratattata taratatatta ta” e ancora “taratatatattataaaa taratatattta taaaa”, Carla la postina continuava a battere sul tamburo con orgoglio e convinzione, mentre una lacrima sfuggita alla commozione le rigò il volto. Il suono emanato dagli strumenti sparsi per Besazio salì e si congiunse in un’apoteosi di scintille e magnificenza. Da Casa Rosalba giunse allora il segnale finale e un’esplosione di energia andò a sbattere sulle guance di coloro che ancora dormivano: smack! Erano le sette. E il paese si svegliò. 
Oliviero rimase ancora un attimo in silenzio. Attese che persino l’ultima scintilla si fosse spenta, si ricompose, mise la bacchetta nella giacca e si diresse al lavoro. Aprì il cancello dello stabile e si sedette accanto all’entrata, in attesa. “Taratatarataratattarata taratataratata, taratatarataratarata taratattatara”, i passettini allegri dei bambini cominciarono a tamburellare sull’asfalto, sempre più vicini, fino a quando il primo allievo gli passò accanto pronunciando educato “Buongiorno Signor Bidello”, a cui seguì il secondo, il terzo e così via, ognuno in tono diverso, ognuno con quel suono argenteo e pulito come solo le voci infantili sanno avere: musica per le orecchie di Oliviero, così che anche lui ebbe il suo Boléro.

Guerra di torte in quel di Besazio

Casa Rosalba si trova in un nucleo di paese in cui a volte, come stamane, per le viuzze aleggiano guerre d'odori degne dei più grandi Maître de cuisine. Da Via Ferdiando Bustelli la Signora Rusca lancia per strada le note di una torta al cioccolato che farebbe arrossire Monsieur Lindt; di tutta risposta il Palmiro da Via Chiusa ha rilanciato con una torta di ricotta e fragole che ha risvegliato le voglie sopite di Aldina la sarta, la quale ha messo sul fuoco un bricco di caffè con l’intenzione di suonare alla porta del vicino e chissà…; dalla lontana piazza della Chiesa il parroco alza gli occhi dal rarissimo francobollo La colomba di Basilea, donatagli il giorno prima da una coppia di zurighesi in cambio di un rituale nuziale express, e sferra un colpo aprendo la porta del forno in cui sopiva immacolata una torta di pane corretta con grappa benedettina; a questo punto da Casa Rosalba si è alzata in cielo una vena di squisito odor solenne di torta di zucca la quale, raggiunta l’altezza del campanile, ha iniziato a battere a ritmo cardiaco; a quel punto tutti i cuori del paese si sono sintonizzati all’ascolto, e le colazioni ebbero inizio.

 

RICETTA TORTA DI ZUCCA DI CASA ROSALBA

1 Kg di cubetti di zucca già tagliati
100 gr di farina bianca
150 gr di zucchero
50 gr di burro
2 uova intere
1 pizzico di sale
uva sultanina
1 bustina di zucchero vanigliato

Preparazione:
Fate cuocere i cubetti di zucca in poco latte (giusto per non farli attaccare alla pentola), fino a quando si spappolano; passateli e lasciateli raffreddare (potete anche farlo con la forchetta, basta che si arrivi ad avere una purea). Aggiungete gli altri ingredienti, e otterrete così una pasta molle (dovesse risultare troppo liquida aggiungete ancora un po’ di farina). Imburrate la teglia e passatela con la farina o il pane grattugiato. Versatevi dentro la pasta e cuocere per circa un’ora nel forno preriscaldato a 180°. Spesso ci vuole anche di più, dipende dal forno, fate comunque sempre la prova dello stuzzicandenti. Lasciate raffreddare e…. gustare!

Giorni normali anche se speciali

Oggi è una di quelle date che in teoria dovrei marcare sul calendario, eppure… eppure è come fermarsi per lasciar passare qualcuno sulle strisce pedonali, lavarsi i denti appena sveglia, cambiarsi appena tornata a casa, dire buongiorno alla cassiera, fare di nascosto il dito medio ai maleducati, respirare, aprire una busta recante il mio nome, fare le coccole al cane, ammirare un bel panorama, sorpassare un sasso, dar da bere alle piante, fare benzina, togliersi il mascara la sera, osservare un lampone passare, bere il caffè, amare il blu Merian e il verde Pistache, ringraziare, aver voglia di torta di mele, chiamare un’amica, pensare, piangere e rirespirare, abbandonarsi ai ricordi, scrivere appunti, leggere un fiore, iscriversi a un corso, voler a volte scappare, altre tornare, parlare con qualche Dio e sorseggiare un buon vino, mangiare grissini aspettando l’amore e biscotti durante un bel film… insomma, ora mi sembra una cosa talmente naturale e giusta, da apparire quasi scontata, anche se scontati non sono stati i giorni che mi sono serviti per arrivare fin qui. Bene: da novembre mi metterò in proprio… già… proprio io… in proprio… questo sì che mi fa effetto, un po’ come sgranocchiare un peperoncino mentre infilo i piedi in un lago ghiacciato vestita di giallo indossando un cappello a falde larghe cantando la vie en rose mentre un aeroplanino di carta, passando per caso via di lì, mi strizza persino l’occhiolino… insomma… quelle cose normali da tutti i giorni… e ecco… l’ho detto :-).

Piacevoli consegne

Come una rondine che fa primavera,
annunci la fine dell'estate e della casa che era.
Nuovi colori, fantasie e collezioni,
e la testa si riempie di infinite composizioni.
Soggiorno, cucina, studio e camera da letto,
rinnovarle nel pensiero diventa uno squisito diletto.
Il tuo arrivo è un evento che va degnamente festeggiato,
per questo mi appropinquo ad aprire un vinello prelibato.
Quanto mi sai rendere felice tu non hai probabilmente idea,
e grazie postino, grazie per aver portato nuovamente il catalogo Ikea.

Raku: the end

Ci son cose per cui si è portati, altre meno, ma su alcune proprio sarebbe necessario stendere un velo pietoso. È che questo velo ieri sera si è trasformato in una copertina fitta fitta di risa e allegria. Avete in mente quando vi scoppia la stüpidèra? Ecco. Un contagio immediato ci ha coinvolte tutte e giuro... non ridevo così da secoli. Ma di quelle risa che non respiri più, piangi, ti fanno male pancia e faccia e il contegno se ne va offeso sbattendo pure la porta della decenza. Ma che bello, e che bello andare a dormire e prima di cadere nel sonno scoppietticchiare ancora un po' a ridere, e idem stamane mentre mi pulivo i denti. Insomma, la vita è bella, anche quando il risultato delle tue fatiche è orrendo. Questo è il mio primo (ed ultimo, ovviamente) esperimento di raku, e considerate che sono andata a farlo perché volevo delle nuove tazzine per il caffè super fichissime :-).

Eremo di Monte Giove: una madeleine proustiana bella cicciotta

Di getto scrivo di vacanze appena concluse passate a lasciarsi stupire dalla semplicità dell’accadere, del sorgere del sole al mattino, del perdersi per viuzze deserte, del caldo che appiccica l’allegria, di telefonate per permetterci di fare acquisti fuori orario, di chiacchiere lunghe un pomeriggio e una sera e una notte intera e ancora a bere nel letto al mattino il caffè a raccontarsi la vita osservando un soffitto medievale. E la bellezza di un sorriso e l’eleganza dell’accoglienza, le colline e le distese di ulivi nate per correrci attraverso con la fantasia, il guidare fra le onde di strade a curve che traghettano a parcheggi liberi impossibili da trovare.

E ancora lo sguardo fiero di una moglie di un ceramista, scorci di storia e di sapere, una coroncina di fiori che profuma di spensieratezza, la sfilata di un cesto di lamponi accanto alla Signora in rosso di Gene Wilder, l’ignorare bellamente i disperati appelli di un navigatore mai rassegnato, l’arrivo al Monte, l’ingresso nella bolla, l’accomodarsi a casa, il lasciarsi cullare fra toni e odori. Poi i volti sinceri, gli scambi, gli inchiostri, gli antichi gesti, la luce, la carta, la calma, il sentire il tempo rallentare e i pensieri svanire, i canti, gli inchini, i ringraziamenti e i messaggi beneauguranti, e poi quel saper osservare ma soprattutto vedere, che nulla giudica e tutto accetta. E gli scambi, i timori, i colori e gli svolazzi, per non parlare degli errori che caspita ogni volta si dimentica una lettera ma che poi non importa, ma che poi va bene anche così, sempre. E ancora la luce, il mare, il tramonto e il temporale, le lodi e i vespri e i piedi appoggiati al parapetto per osservare meglio le stelle bevendo in compagnia, per capire che i desideri espressi in fin dei conti sono raggiungibili basta allungare una mano e vedere quella mano alzarsi a cogliere il proprio momento.

Ecco, ora che sono rientrata ho capito che in questa vacanza ho cucinato una madeleine proustiana bella cicciotta a cui spesso tornerò con il pensiero durante l’arco della mia vita futura, perché un punto può anche non essere solo un punto calligrafico, ma può anche avere il sapore di un pasticcino (e dico “pasticcino” come solo una persona speciale sa pronunciare, e che in pochi – per ora - possono capire ;-)).

L'erba voglio esiste davvero

L'erba Voglio è una pianta erbacea a crescita spontanea, perenne e a distribuzione cosmopolita, il cui nome latino è Voglius Possus. Dalle notevoli proprietà curative questa pianta soffre in reputazione a causa del suo abuso perpetrato per anni. Il gusto dolce e bruciante assieme spinge infatti spesso le persone ad ingerirne quantità tali da risultare velenosa, in quanto sviluppa nel corpo la capricciosina, ormone del pianto e dell'urlo isterico, e crea facilmente dipendenza. Un uso però sapiente e parsimonioso della pianta sono di notevole beneficio soprattutto per coloro che soffrono di mancanza di determinazione, in quanto stimola l'apparato grintoso e favorisce la decisione. 

L'aeroplanino è vicino

Arrivi leggero e fugace, sul vento che ormai più non tace,
e io che sono aquilone, osservo volteggiando dalla mia posizione.
È bastato un giorno e un sorriso, un piccolo scambio condiviso,
e “sarà un per sempre iniziato ieri”, ha sussurrato il soffione dei desideri.
Abbandona le ali alla prossima brezza, la strada è lunga e serve una carezza,
coraggio alzati in volo piano pianino, io ti aspetto ma fai presto, mio aeroplanino.

Kit per desideri

Istruzioni per l'uso:
- Stampare l'immagine
- Ritagliarla seguendo il bordo tratteggiato
- Prenderla e tenerla fra indice e pollice della mano sinistra
- Alzare le braccia
- Guardare la stella
- Lasciarla cadere
- Prima che tocchi il suolo, esprimere un desiderio

Insonnia estiva

La sesta. È la mia mente a tenerne il conto, come fosse un rosario da sgranare in cui, giunti alla settima dove il Signore si riposò, speri tocchi finalmente anche a te. Ma no. Stanotte sono state otto le volte in cui mi sono svegliata di una serie lunga settimane ed ora lo ammetto, comincio ad essere un po’ stanchina. Che poi l’insonnia estiva è comunque diversa da tutte le altre: è di una leggerezza spessa. Come se qualcuno ti scoperchia casa per spruzzarvi dentro quintali di gel: ecco, poi tu apri gli occhi in quell’ambiente lì anche se sarebbe meglio dire che non vi dormi, ed è diverso.

Ah, in quel gel però ci respiri, questo bisogna dirlo. Dunque: splash splash splash, ti tiri su dal letto e ti muovi come Neil Armstrong esattamente 46 anni fa sulla luna, però cerchi di fare veloce perché stavolta speri di beccarli gli oggetti di casa che si muovono quando dormi ma non ce la fai, sei assediato dall’ambiente denso! Guardi il cane addormentato in fondo al corridoio ed è diventato tanto enorme da toccare il soffitto, ma poi capisci che è l’effetto lente di quel budino notturno in cui sei immerso. Vista la novità ti sfoghi e cominci a fare facciacce e ombre cinesi ovunque solo per vedere l’esile ombra gigante proiettata sul muro. E già che ci sei ti volti e ti lasci cadere: tanto non hai bisogno di qualcuno che ti tenga perché è come cadere su un materasso, visto che quel materasso ce l’hai addosso. Poi le pirolette.

Avete mai provato a fare le pirolette nel gel? Mi chiamano la Jury Chechi delle tenebre, che fa tanto super eroe ma non è vero, lo fanno solo per prendermi in giro. Però io i salti, le ruote, le spaccate e le rovesciate li faccio davvero nelle notti gelatinose, altrimenti quel soprannome non me lo sarei meritato, no? Ma poi c’è la figata che quel coso consistente lì ti entra in testa e impedisce ai pensieri di svilupparsi, dunque hai il vuoto nel cerebro anche se in verità vuoto non è. E però no dai, qualche cosina ci devo buttare dentro, sai che forma assurda può prendere un’idea in un ambiente così? Ombre folli proiettate sulla volta craniale che basterà solo riportare il giorno dopo in word. Accidenti non resisto: io ci butto dentro il tema dell’insonnia estiva, poi vediamo cosa ne salta fuori, ok? Un due tre: splash…

Precipitare è un avvicinarsi

Nettuno. Il pianeta azzurro. Il tutto, nel nulla, è un nero che non sottrae ma somma; fuochi sparsi all’orizzonte, sospesi ma attratti. Un coro. Saturno: una voce. La terra: una storia. Una storia: scritta. L’atmosfera, l’ossigeno, il volare che è un cadere che è un tornare che è un avvicinarsi che è un ricominciare.

L’Oceano, Europa, Alpi, odori, volo d’uccelli, canti, bosco, caldo, afa, Mendrisio, tetti, Pipino, finestra, tenda, campanella tibetana, erbe aromatiche. Sedia vuota, lampada, fattura, tavolo, sottobicchiere, bianco, portatile, tastiera, mani, braccia, pensiero, sudore, pelle, circolazione, cellule, respiro. Respiro; brivido. Sensazione; battito. Un punto: Nettuno. E avanti così: ricominciare.

Punto e virgola

Virgola da tempo non era felice. Troppe le prese in giro dei compagni, molte le umiliazioni fino a quel giorno subite: “Sei solo una pausa breve”, si sentiva ripetere, “Sei un intervallo buono unicamente a rallentare”, le dicevano in continuazione. Nel cuore di Virgola cominciò a nascere il desiderio di diventare altro, qualche cosa di secondo lei più grande, più elevato. Decise quindi di porre dei cambiamenti radicali alla sua vita. Fece dei corsi, eseguì numerosi esercizi, si impegnò molto e si rimise a studiare, fino a quando fu finalmente nominata Apostrofo. Felice di poter vedere coloro che la schernivano dall’alto, Virgola si posizionò subito nel posto lasciato libero da un’elisione. “Assassina”, sentì però gridare, “Sei crudele”, le arrivò come accusa. Ma come, pensò, ora sono un Apostrofo, che male posso aver mai fatto? “Fai cadere vocali o le tronchi, e fai sparire cose attraverso l’aferesi”, le dissero i maligni.

Avevano ragione anche questa volta, si disse Virgola, ma forse una soluzione a tutto ciò esisteva. Senza perdersi d’animo si rimise a studiare, seguì un rigidissimo allenamento e si impose grandi sacrifici fino a quando riuscì a sdoppiarsi, momento in cui poté finalmente conseguire il diploma di Virgolette. Ora non faccio più del male a nessuno, concluse soddisfatta, prima di andare a posizionarsi all’interno del testo. Ma l’illusione di pace ebbe vita breve, alcuni minuti dopo infatti voci nemiche cominciarono a risuonare all’interno del paragrafo: “Copiona copiona”, sentì cantilenare “Di tuo non hai proprio nulla”, aggiunsero. All’inizio non capì, ma poi comprese: al suo interno ora solo citazioni o discorsi altrui, e a lei cosa restava? Dove era andata a finire la sua identità? Virgola questa volta si sentì molto demoralizzata: tutta questa fatica per ritrovarsi al punto di partenza.

Fu proprio un Punto, in quel momento, a passare di lì: “Virgola Cara, cosa c’è che non va?”, disse egli con quella nobiltà d’animo che lo contraddistingueva e che obbligava tutti a rivolgersi a lui iniziando in maiuscolo. “Ho fatto tanto per cambiare, ma sono stati sforzi vani”, disse ella esponendogli la situazione. Punto l’ascoltò con attenzione e quando il racconto terminò le disse: “Virgola, tu sei perfetta così, e il tuo ruolo è importantissimo. Permetti alle persone di riprendere fiato, inoltre puoi decidere se far diventare un numero enorme o molto piccolo, senza dimenticare il ritmo che puoi dare a un paragrafo. Sei come un direttore d’orchestra, ma da sola puoi fare ben poco. Ascolta le parole che ti risuonano attorno, entra in loro, conoscile, e vedrai che diventerà per te semplice e naturale capire dove posizionarti affinché possa nascere una melodia meravigliosa. Devi imparare a fidarti, cominciando da me”.

Punto con quelle parole mise fine a un periodo complesso per Virgola, la quale finalmente tornò a sorridere: “Son contento se sei contenta”, disse lui, prima di baciarla. E fu così che tempo dopo per i testi cominciarono ad apparire tanti piccoli punto e virgola piuttosto indisciplinati ma d’altronde si sa, a saperli usare veramente bene sono in pochi; molto in pochi; anzi pochissimi; appunto.

Festival Jazz Ascona, per #faigirarelacultura

Festival Jazz Ascona. Ritmo e improvvisazione. Questo è il jazz. Ritmo e improvvisazione. Come la nostra serata. Ascona, il lago, il luogo, il lento passare per vie ancora deserte, il lento fluire di un domani che ancora non c’è. (Una voce: Summertime and the livin’is easy). Ciotoli rossi, strada in discesa, aperitivo al porto, cuscini verdi e un’ape che sappia indicare la via. (Partono le note di un pianoforte). Il cielo grigio si fonde con il lago, che è il luogo, che è il lieve passare del tempo, scandito dal movimento del capo. (Fish are jumpin’ and the cotton is high).

La musica cambia, i racconti si intrecciano, i cappelli aumentano, le luci echeggiano, il cielo si apre. (Contrabbasso e piatti: I Know why I Waited). Un piede tiene il tempo, che non è più lento, che fluisce attraverso desideri che non sanno più aspettare. (Know why I’ve been blue). Un caffè shakerato con ghiaccio a pezzi, con pezzi passati e cannuccia nera, la notte è nera, la voce è d’oro e le dita rullano su quello che c’è. (Due sax, un palco, un pubblico, e noi). Il cielo trema, il cielo è a trame, il cielo sovrasta, il cielo improvvisa (I’ve been waiting each day). Il pianista si alza, le braccia e anche noi, la pioggia è sulla schiena, la pelle ringrazia, la pelle che resta, la pelle che chiama. (Assolo di tromba). Il ritmo incalza, il pensiero è fisso, le mani applaudono, il cuore è. (For someone exactly like you).

Una voce dal pubblico sale improvvisa, sale decisa, sale che graffia, che morde, che accoglie, che plasma ritorna e va via. (L’atmosfera esplode, la gente è con lei). Il lago spumeggia, il cielo gorgheggia, le luci contengono, i fischi richiamano, i musicisti ritornano, è il bis. (Sax sax sex, piano, basso, batteria e tromba guest da New Orleans). Sul palco si ride, sul palco si dice, sul palco si è dentro, sul palco si è fuori, portano noi dentro, portano noi fuori. (For someone exactly like you). Il temporale si placa, il buio è tenace, il ritmo che tace, Ascona è il luogo, il luogo è ieri, il fluire è lento e accompagna al rientro. (For someone exactly like you). L’automobile si ferma, la portiera si chiude, la casa è deserta, il vento accarezza, la doccia rinfresca, il letto è la notte che ora qui c’è. For someone exatly like you. For someone exatly like you.

Recensione pubblicata su Timmagazine

Quella cosa lì

L'ultima pennellata di luce proprio dove Segantini provò a catturarla, e vi morì. Eppure lei, con quel suo fare cafone e un po' arrogante, continua imperterrita a sbattere in faccia a noi umani quella cosa lì che uno può anche cercare di immortalare o spiegare, ma poi vi rinuncia. Appare, si mette in posa, ti ammalia e attende. Tu la ammiri, la osservi, la ascolti e ti lasci invadere, finché credi di averla capita e colta. A quel punto trattieni il respiro, prendi ciò che ti serve e lei "paff", scompare. È che a questo punto uno dovrebbe descrivere un ricordo ma, in quanto tale, brilla soprattutto della luce di chi lo possiede, non per merito di quella stramaledetta sfuggevole caleidoscopica ipnotica e solenne cosa lì...

Milletrentatre

E ecco, o meglio, e eccomi, di nuovo. Stamane sono partita sull’onda del cip cip e universo e connessione e meraviglia e splendore e ma che bella la vita ed effettivamente, dopo appena dieci minuti, di cose speciali ne erano già successe mille: gocce come nella notte di San Lorenzo, salti di pesci come in Free Willy, personaggi fiabeschi come in Tim Burton, rondini come a San Francesco, personaggi veri come in Fellini, pioggia e sole e sole e pioggia come quando il diavolo sta facendo l’amore. Poi siamo arrivati al Lej da Staz: Artù si è fiondato nell’acqua alla ricerca di pesci e io mi sono sdraiata sul pontile alla ricerca e basta.

Qui, dopo appena quindici minuti di nulla, l’ho sentito arrivare: cosa speciale milleuno. Si trattava della figurina numero diciotto del mio personalissimo album dell’umanità: Lo Sportivo con la esse maiuscola. Passo leggero, perfettamente simmetrico, di quelli che consumano esattamente la stessa zona della scarpa sia del piede destro che sinistro. Coordinazione del movimento/respiro/battito cardiaco in perfetto rapporto aureo. Abbigliamento super tecnologico che nemmeno Samantha Cristoforetti ma in questo caso ci sta, se non altro li usa, e non per andare al bar. Arriva, si ferma, “bib” sull’orologio da polso (o facente funzione), braccia alzate per respirare e via con mezz’ora di stretching ed esercizi degni del più moderno Gioca Jouer, al termine dei quali si spoglia e ed entra in acqua. Fisico perfetto, nulla da dire, di quelli che anche a cercare bene non ci trovi più nemmeno il ricordo di una raclette o di un profiteroles, per non parlare di quegli aperitivi che vanno a finire in ciocca allegra: tutta roba debellata da tempo. È stato solo quando si è immerso però che ho avuto la prova fosse effettivamente un essere umano, in quanto gli è sfuggito all’autocontrollo un leggero “aargh” ma insomma, otto gradi fuori, vento, pioggerella e quindici gradi nell’acqua avrebbero piegato qualsiasi Robocop. Si è fatto la quantità di bracciate preventivamente calcolate e inserite nel programma e poi, una volta uscito, si è asciugato con un pezzetto di roba blu grande al massimo venti centimetri per lato, che gli è bastato appoggiare sulla tartaruga per ritrovarsi risucchiata in un nanosecondo anche l’acqua che aveva depositata in mezzo alle dita dei piedi. Incredibile. Poi si è rivestito, due o tre esercizietti di routine e “bib”, il meccanismo da polso è ripartito e con esso anche il suo passo di corsa. Chissà se si è accorto dell’attorno ma in fin dei conti, alla figurina numero diciotto, dell’attorno non gliene deve fregare un fico secco di nulla, altrimenti mi si banalizzerebbe il cliché Emoticon wink.

Bene, ora tocca a noi. “Dai Artù andiamo, che comincio ad avere freddo”. Nulla. Faccia rivolta sul fondo del lago a cercare i pesci. “Artù, sei già dentro da mezz’ora, andiamo”. Nulla punto zero. “Ffffffffffffffff”, il rumore del sacchettino con dentro i pezzi di wienerli ha scaturito lo stesso effetto che avrebbe su un cane vegano: indifferenza totale. “Ok io vado”, e vado davvero. Quando ormai non lo vedo più perché il lago è terminato e sono passati più di dieci minuti decido di tornare indietro. Ebbene, la paura di rimanere solo, dell’abbandono o quelle cose che ti insegnano durante i corsi di obbedienza sono tutte balle: lui era ancora lì pacifico a giocare coi suoi pescetti. “Artù porca miseria, è passata un’ora, andiamo!”. Aria. E adesso che faccio? L’unica cosa possibile mannaggia a te: mi sono spogliata e sono entrata nell’acqua. Lo ammetto, in quel momento ho usato un linguaggio un po’ colorito ma gente, con la pelle d’oca che m’è venuta potevo farmi lo chignon! Artù poi deve aver pensato volessi giocare e mi si è fiondato addosso a balzi e tuffi: linguaggio coloratissimissimo ma se non altro sono riuscita ad afferrarlo. Ok, usciamo, ed ora? Ho provato ad asciugarmi con la giacca in Goretex ma ha fatto l’effetto della tenda da doccia gelata quando ti si appiccica addosso: ho optato quindi per le calze, tanto i piedi non li sentivo più. Mi rivesto e via, intirizzita e divertita e con ancora un cane al seguito, anche se solo perché abbrancato e legato.

Dopo cinque minuti di cammino poi è avvenuta la cosa speciale numero milletrenta: mi si è aperta la terza corsia e improvvisamente un flusso di sangue ringalluzzito si è fiondato su e giù per il corpo in una corsa mozzafiato degna del prossimo Fast & Furious, dove globuli rosso Ferrari e bianchi Space Shuttle si sono portati via spiaccicati sui parabrezza anni di tossine, colesterolo, acido urico e quelle cose che a volte uno ha e non si capisce il perché (…). 
Ora però che siamo a casa un bel bagno caldo non me lo leva nessuno: e fanno milletrentuno, e metto pure su un po’ di musica jazz, e milletrentadue, e magari mi ci porto pure un bel bicchiere di vino, e milletrentatre…