Nominare è creare un legame: con un istante, una voce, il mondo

Nominare il reale non è descrivere ciò che si vede, ma è accorgersi che qualcosa ti ha chiamata. Che una presenza — minuscola, silenziosa, quasi invisibile — ha bussato, chiedendoti di essere accolta nel linguaggio.

Nominare è rispondere a questo richiamo. Non per dare un nome qualunque ma per lasciare che la parola giusta possa apparire. Come un’immagine. Come un fiore che si apre da solo, se sai stare in ascolto. È un’attitudine. Una postura interiore, potrei dire.

Ci sono parole che non si possono inventare, ma ti raggiungono. Come è accaduto con lucciole d’acqua, in un mattino di luce e pioggia intrecciata. O come lampada-bastimento, quando improvvisamente l’atelier si è fatto viaggio, senza sapere dove mi avrebbe portata. O come fiato di confine, quando un respiro è bastato a farmi sentire nettamente il passaggio tra un prima e un dopo.

Queste non sono parole che spiegano: vibrano, fioriscono, si aprono.

Perché ogni parola immagine è un inizio. Non chiude un significato, ma lo spalanca. È il mondo del sottile che si rende visibile, il gesto di nominare come atto di presenza e relazione.

E quando lo si compie, qualcosa cambia. Non solo fuori, ma dentro. Perché dare un nome è un modo di restare. Di riconoscere. Di legarsi a ciò che ci attraversa e ci forma — anche se non lo sappiamo.

Non si nomina il reale per possedere. Si nomina il reale per incontrarlo.

E ogni nominazione è una soglia. Un’apertura che può essere condivisa, abitata, vissuta nel tempo. Una parola che continua a sbocciare. Proprio come un fiore.

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