nominazione del reale

Turismo di restituzione: e se la chiave fosse la postura?

La montagna, per me, è uno dei luoghi in cui il sacro è ancora percepibile, anche da chi non ha un linguaggio religioso. È un ambiente che impone silenzio, ascolto, umiltà, condizioni essenziali per entrare in relazione con l’invisibile.

Da un po’ sto indagando su come la montagna possa diventare un laboratorio simbolico di relazione con il mondo, non solo attraverso l’esperienza estetica o sportiva, ma attraverso pratiche di restituzione consapevole: gesti semplici che riconoscano l’ospitalità ricevuta e trasformino il turismo in un incontro, in una forma di accoglienza reciproca.

In questo senso, il turismo di restituzione – come lo chiamo per ora – nasce come estensione naturale del mio impegno sul legame che fino ad ora ho svolto attraverso pratiche artistiche. Per restituzione non intendo lasciare qualcosa, ma modificare la propria postura. Non essere consumatori di paesaggio, ma ospiti attenti in grado di restituire valore attraverso cura, attenzione e relazione.

Ma cosa significa modificare la propria postura? Nel contesto dell’ospitalità, la postura non è solo fisica ma diventa esistenziale, relazionale e simbolica.

Faccio un esempio. Quando vado a camminare e mi fermo, ho due possibilità: guardare il panorama come sfondo da consumare con lo sguardo, o soffermarmi su ciò che mi circonda percependo l’umidità, il profumo di terra, il vento che sfiora, il sole sulla pelle, l’erba che vibra, e così via. È un piccolo cambio di postura, ma trasforma radicalmente l’esperienza. Si passa infatti dal guardare la montagna dal fuori, ad abitare il legame con lei. Non la prendo con lo sguardo, ma le restituisco presenza e ascolto. Restituire, in questo caso, significa riconoscere e dare valore all’incontro.

Questo cambio di postura permetterebbe di passare da:

  • Usufruire del luogo a entrare in relazione con il luogo

  • Essere un cliente a essere ospite e coabitante

  • Consumare l’esperienza a custodire l’esperienza

  • Orientarsi per ottimizzare a disorientarsi per ascoltare

  • Controllare il contesto a lasciarsi toccare dal contesto

È una trasformazione lenta e sottile, ma secondo me radicale. Vorrebbe dire passare da essere visitatori a coabitanti del significato. E l’ospitalità, vissuta come spazio relazionale e simbolico, potrebbe diventare un gesto sacro laico, una soglia in cui custodire ciò che si riceve e si restituisce con consapevolezza e non per dovere, ma per senso di appartenenza.

Sarebbe inoltre un modo per radicare il modello del legame non solo in esperienze legate al turismo, ma anche in pratiche diffuse, quotidiane e accessibili a tutti.

Una nuova soglia insomma, da attraversare insieme.

E tu cosa ne pensi? Ogni relazione nasce da uno scambio: forse anche questa idea può germogliare solo se coltivata da diverse voci intrecciate. Se ti va lascia un commento, o scrivimi: sarò felice di ascoltare anche anche la tua.

Lieti momenti

Giada

Cembro-luce della sera: trasformare l'ospitalità in legame coi naturogrammi

I naturogrammi sono nati tempo fa nel mio lavoro artistico: piccole rivelazioni poetiche che danno voce alla natura e al sottile. Un modo per pronunciare immagini che acquisiscono senso nel tempo non attraverso il significato ma l’evocazione. Li ho sempre immaginati come un modo per restituire attenzione al mondo: nominare qualcosa che prende forma nel tempo, come nelle relazioni. Sono l’atto fondante del legame.

Mi è sembrato quindi naturale portare questo gesto a Chesa Altrova – La dimora degli istanti: offrire cioè uno spazio simbolico in cui montagna e ospite potessero incontrarsi. Funziona così: nel modulo di contatto un ospite può scrivere, se vuole, un elemento naturale a cui si sente legato (una pietra, un cembro, una piuma…), e un elemento del sottile che lo accompagna (il vento, il silenzio, la vastità, la luce dopo il temporale…).

Dall’unione nasce un naturogramma, che li attende nel Libro del reale di Chesa Altrova e che li accoglierà al loro arrivo. In questo modo il legame personale con la natura diventa parte viva dell’ospitalità, e l’accoglienza stessa può trasformarsi in gesto di restituzione verso il paesaggio.

Un esempio creato per degli ospiti di agosto, che mi hanno lasciato le parole cembro e luce della sera:

Cembro-luce della sera

Essere raro, composto dalla densità resinosa del cembro e dalla luce calda e radente dell’ultima ora del giorno. Compare quando l’aria rallenta, quando il tempo non ha più urgenza di avanzare. Il suo passo è silenzioso, ma lascia nell’aria un sentore che rimane. Non illumina, ma circonda. Non parla, ma custodisce ciò che è stato detto. Ha la pazienza degli alberi longevi e il tocco sottile della luce che non vuole essere vista. Si manifesta spesso nel battito che si calma, nei silenzi che svelano, negli spazi in cui si può restare senza difese. Abita i luoghi dove il vento racconta, e ogni forma è accarezzata abbastanza a lungo da sembrare più grande — non per altezza, ma per presenza. Il cembro-luce-della-sera è presenza gentile e profondamente radicata. Porta con sé il tempo dilatato, la memoria che non pretende, e una cura che non si mostra, ma si lascia sentire.

Il suo invito:

Rimani abbastanza a lungo da sentire il tempo cambiare passo. Lascia che la luce ti avvolga senza chiederti di fare nulla. Respira come fa il cembro: profondo, lento, radicato. E tieni in te quella calma, anche quando il vento riprende a correre.

Nominazione e restituzione

La nominazione è per me un modo di restituire. Raccolgo immagini in parole, affinché possano continuare a crescere e a vivere, generando senso e significati sempre più profondi. Applicare questa pratica con gli ospiti ne amplifica il gesto, in quanto il naturogramma non è più solo un testo poetico, ma diventa ponte di legame tra chi arriva, la casa e la montagna.

È in questo passaggio che la nominazione si fa ospitalità: accogliere non solo per offrire un tetto, ma per dare forma a un incontro che può cambiare sia chi accoglie sia chi riceve.

La restituzione non appartiene solo all’arte o alla vita quotidiana, ma credo possa diventare anche un modo nuovo di viaggiare. Per questo parlo di turismo di restituzione: un turismo che incontra i luoghi nel riconoscimento, nella gratitudine, nella cura e nella custodia. In una parola: nel legame.

I naturogrammi, insieme agli istanti, alle parole collettive o alle passeggiate sogliare, sono le pratiche che metto in atto per invitare a vivere la montagna come interlocutrice viva, generando non solo ricordi ma anche trasformazioni, unioni e appartenenza.

Così, ogni volta che un ospite varca la soglia di Chesa Altrova, non trova soltanto un appartamento, ma un piccolo seme che lo accompagna. Un gesto che gli sussurra all’orecchio “tu non sei solo di passaggio, sei parte di una trama che custodisce e restituisce. Siamo uno parte dell’altro. Siamo un noi”.

E tu? Quali sarebbero le due parole che vorresti unire per creare il tuo naturogramma?

E, se lavori nell’ospitalità o nel turismo, come immagini che pratiche come la nominazione possano trasformare il modo in cui accogliamo e restituiamo ai luoghi?

Grazie se vorrai partecipare alla conversazione, così che possa ampliarsi e crescere insieme.

Lieti momenti

Giada

se ti va, scrivimi

Turismo di restituzione: è possibile?

Vivo in uno dei luoghi più turistici delle Alpi. Qui la montagna è ogni giorno attraversata da chi la scala, la fotografa, la abita per poche ore o pochi giorni. Io la amo profondamente, non a caso mi sono trasferita qui, e spesso mi sono ritrovata a chiederle: come posso prendermi cura di te?

La mia ricerca personale e artistica si concentra su una parola sola: il legame. Credo che sia il collante laico capace di restituire senso e unità in un tempo che spesso frammenta, disorienta e divide. Ho così provato ad applicare il legame all’ospitalità, e ne è nata un’idea di turismo di restituzione. Sarebbe un modo di abitare i luoghi che non si limita a viverli o consumarli, ma che li riconosce, li ringrazia e li custodisce, generando valore.

Da dove nasce l’idea

Negli ultimi mesi ho ulteriormente approfondito il tema del legame – tra persone, luoghi e narrazioni collettive – a cui ho dedicato l’intera tesi di Master. Ho intrecciato le intuizioni di Hartmut Rosa sulla risonanza con quelle di Mircea Eliade sul sacro. Mi sono chiesta: è possibile applicare questi sguardi al turismo, e in particolare a quello di montagna? Non inteso come turismo religioso, né solo come turismo sostenibile, ma come esperienza capace di restituire senso, cura e gratitudine.

All’inizio avevo pensato alla parola “risonanza”, ma la restituzione reputo sia un passaggio in più. La risonanza è l’esperienza che ci tocca e ci cambia, la restituzione è il modo in cui la custodiamo e la onoriamo. Non significa lasciare qualcosa di fisico al luogo, ma restituirgli dignità attraverso rispetto, attenzione e cura. È un atteggiamento interiore e morale: non trattare ciò che incontriamo come sfondo, ma riconoscerlo come presenza viva con cui siamo in relazione.

Cos’è il turismo di restituzione

Il turismo di restituzione parte da un presupposto semplice: ogni viaggio non è un prelievo, ma uno scambio. Se un luogo mi accoglie, io posso restituirgli attenzione, cura e memoria. Restituire alla montagna non significa soltanto proteggerla, ma anche riconoscerla come interlocutrice, entrare in dialogo con i suoi silenzi, i suoi ritmi, la sua fragilità. Il turismo di restituzione, in pratica, significa creare un legame. Ci sono io ma ci sei anche tu. Siamo un noi.

Anche la nominazione – quell’arte di dare voce alle cose, di raccogliere istanti e parole dal reale – diventa parte di questo gesto: nominare significa infatti riconoscere, e riconoscere è già un modo di restituire.

È un modo di abitare che non si limita a ridurre l’impatto (come spesso fa il turismo sostenibile), ma che genera valore: lascia tracce di gratitudine, rafforza l’identità dei territori, crea esperienze trasformative per chi viaggia. E a differenza del turismo religioso, non cerca mete sacre da venerare, ma riconosce la dimensione sacra che abita i gesti quotidiani e i luoghi stessi. Per la montagna, questo significa non essere trattata come risorsa da sfruttare o sfondo da consumare, ma come interlocutrice viva: una presenza fragile e potente insieme, capace di ricevere cura e restituire senso.

Il ruolo di Chesa Altrova

Con Chesa Altrova sto cercando di dare forma concreta a questa visione:

  • una casa che non sia solo alloggio, ma laboratorio del legame,

  • l’esperienza incarnata del turismo di restituzione

  • un luogo in cui ogni ospite possa lasciare tracce (parole, istanti, gesti di cura) che diventano memoria condivisa,

  • un’esperienza che intreccia arte, accoglienza, nominazione e amore per la montagna.

Uno spazio aperto

Il turismo di restituzione non è un modello chiuso, ma un campo di possibilità. Vorrei che diventasse una pratica condivisa, applicabile in contesti diversi: case, rifugi, comunità, territori che scelgono di non consumare i luoghi, ma di restituirli al mondo con nuova forza.

Questo articolo è solo un primo passo. Continuerò a esplorare, scrivere e condividere perché credo che la montagna e i luoghi che amiamo meritino non solo la nostra presenza, ma la nostra restituzione.

Ti piacerebbe contribuire a questa riflessione? Cosa significa per te restituire invece di consumare?  Quale gesto di gratitudine hai lasciato in un luogo che ti ha accolto?

Raccontamelo nei commenti o scrivimi: ogni esperienza è un seme che può far crescere questo modo diverso di abitare i luoghi.

Scrivimi, parliamone

Naturogrammi di realtà - Tombino gentile

Stamane, durante la mia raccolta di istanti quotidiana, mi sono fermata ad ascoltare il rumore della pioggia mentre scivolava nel tombino sotto casa. Oggi pomeriggio, in un momento di pensiero libero, quella stessa immagine è tornata, regalandomi una nuova parola‑immagine: tombino‑gentile.

Ci sono pesi che servono, e altri che no. Stavo cercando un modo per lasciarne andare uno in maniera gentile, e il suono di stamane me l’ha suggerito.

L’acqua che entra nel tombino rimbomba un po’. È come il suono di una campana il cui ciocco è la pioggia. Ma non è un rimbombo che batte di qua e di là: è un suono che gira, che avvolge, simile a quello della ciotola tibetana che portai a casa dal Nepal tanti anni fa.

Tornando al tombino, poi l’acqua al suo interno se ne va. Raggiunge il lago, poi il fiume e poi il mare. E da lì, un giorno, torna in cielo, poi di nuovo acqua, pioggia e nutrimento fertile.

Mi è sembrata una forma gentile a cui affidare il mio peso; provare a lasciarlo diventare prima suono, poi campana, lago, cielo, terra e infine linfa. Cercare insomma di trasformarlo in nutrimento e crescita, anziché questa cosa qui.

Poi ho pensato a quanto sarebbe bello avere tanti tombini‑gentili sparsi ovunque, nelle città, e ci ho fantasticato su un po’.

È anche vero che non basta trovare una nuova parola-immagine per cambiare la forma di una cosa. Ma va detto però che la nominazione del reale serve almeno a questo: a dare la possibilità a un dettaglio del mondo di diventare varco di senso, una soglia a cui attingere per rendere più fertile il nostro mondo interiore anche nei giorni in cui le cose sono “un po’ così”.

Lieti momenti
Giada

Naturogrammi di realtà: tocco di luce

A volte accade che una tristezza profonda, probabilmente antica, riaffiori. Come oggi. E così mi son posta davanti alla finestra e, guardando il mondo, ho chiesto “ok raccontami, ti ascolto”.

Fuori il cielo era ricoperto da nuvole scure, in bilico fra un temporale e l’altro. Ogni tanto qua e là si apriva un varco; a volte minuscolo, a volte grande come un pugno. Il sole vi filtrava e, grazie al vento in altura, si spostava lentamente fra boschi e pendii, come guidato da un pensiero silenzioso, quasi distratto.

Osservare senza aspettarmi nulla, in quell’attenzione pura tanto cara a Hesse, mi ha portato consiglio. Mi ha suggerito una forma, o un modo, o un’attitudine, di come riuscire a creare un varco nei miei di pensieri, anche nei giorni più pesanti.

Messaggio del naturogramma colto oggi: “tocco di luce”

È una luce che non vuole illuminare, ma toccare.

Si posa come una carezza lenta sulle cose. Le sfiora senza reclamarle, permettendo loro di restare in ombra anche quando la luce le rivela.

È una luce matura. Sembra sempre quella prima del tramonto anche al mattino. È una luce presente, saggia, capace di scivolare sulle superfici e arrivare al cuore senza ferire. È una luce vissuta, che sa come fare perché ha attraversato il presente plasmandolo. È la sua sintesi. È l’eredità lasciata prima di sparire per sempre nella notte.

È una luce che accarezza la tristezza non per consolarla, ma per permetterle di essere ciò che racchiude, liberandola col tocco sospeso del rispetto e dell’ascolto gentile.

Il tocco di luce mi ha ricordato che non tutto ciò che illumina deve invadere. Esiste una presenza che sfiora senza prendere, che accarezza senza cancellare l’ombra.

È la stessa attitudine che possiamo offrire a noi stessi e agli altri nella tristezza: non forzare, non spiegare. Solo stare, lasciando che ciò che c’è possa respirare.

Così funziona la nominazione del reale: trasformare un incontro in parola-immagine non per chiuderlo, ma per lasciarlo fiorire nel tempo, in noi e in chi lo incontrerà.

Lieti momenti
Giada