Turismo di restituzione: è possibile?

Vivo in uno dei luoghi più turistici delle Alpi. Qui la montagna è ogni giorno attraversata da chi la scala, la fotografa, la abita per poche ore o pochi giorni. Io la amo profondamente, non a caso mi sono trasferita qui, e spesso mi sono ritrovata a chiederle: come posso prendermi cura di te?

La mia ricerca personale e artistica si concentra su una parola sola: il legame. Credo che sia il collante laico capace di restituire senso e unità in un tempo che spesso frammenta, disorienta e divide. Ho così provato ad applicare il legame all’ospitalità, e ne è nata un’idea di turismo di restituzione. Sarebbe un modo di abitare i luoghi che non si limita a viverli o consumarli, ma che li riconosce, li ringrazia e li custodisce, generando valore.

Da dove nasce l’idea

Negli ultimi mesi ho ulteriormente approfondito il tema del legame – tra persone, luoghi e narrazioni collettive – a cui ho dedicato l’intera tesi di Master. Ho intrecciato le intuizioni di Hartmut Rosa sulla risonanza con quelle di Mircea Eliade sul sacro. Mi sono chiesta: è possibile applicare questi sguardi al turismo, e in particolare a quello di montagna? Non inteso come turismo religioso, né solo come turismo sostenibile, ma come esperienza capace di restituire senso, cura e gratitudine.

Cos’è il turismo di restituzione

Il turismo di restituzione parte da un presupposto semplice: ogni viaggio non è un prelievo, ma uno scambio. Se un luogo mi accoglie, io posso restituirgli attenzione, cura e memoria. Restituire alla montagna non significa soltanto proteggerla, ma anche riconoscerla come interlocutrice viva, entrare in dialogo con i suoi silenzi, i suoi ritmi, la sua fragilità. Il turismo di restituzione, in pratica, significa creare un legame. Ci sono io ma ci sei anche tu. Siamo un noi.

Anche la nominazione – quell’arte di dare voce alle cose, di raccogliere istanti e parole dal reale – diventa parte di questo gesto: nominare significa infatti riconoscere, e riconoscere è già un modo di restituire.

È un modo di abitare che non si limita a ridurre l’impatto (come spesso fa il turismo sostenibile), ma che genera valore: lascia tracce di gratitudine, rafforza l’identità dei territori, crea esperienze trasformative per chi viaggia. E a differenza del turismo religioso, non cerca mete sacre da venerare, ma riconosce la dimensione sacra che abita i gesti quotidiani e i luoghi stessi. Per la montagna, questo significa non essere trattata come risorsa da sfruttare o sfondo da consumare, ma come interlocutrice viva: una presenza fragile e potente insieme, capace di ricevere cura e restituire senso.

Il ruolo di Chesa Altrova

Con Chesa Altrova sto cercando di dare forma concreta a questa visione:

  • una casa che non sia solo alloggio, ma laboratorio del legame,

  • l’esperienza incarnata del turismo di restituzione

  • un luogo in cui ogni ospite possa lasciare tracce (parole, istanti, gesti di cura) che diventano memoria condivisa,

  • un’esperienza che intreccia arte, accoglienza, nominazione e amore per la montagna.

Uno spazio aperto

Il turismo di restituzione non è un modello chiuso, ma un campo di possibilità. Vorrei che diventasse una pratica condivisa, applicabile in contesti diversi: case, rifugi, comunità, territori che scelgono di non consumare i luoghi, ma di restituirli al mondo con nuova forza.

Questo articolo è solo un primo passo. Continuerò a esplorare, scrivere e condividere perché credo che la montagna e i luoghi che amiamo meritino non solo la nostra presenza, ma la nostra restituzione.

Ti piacerebbe contribuire a questa riflessione? Cosa significa per te restituire invece di consumare?  Quale gesto di gratitudine hai lasciato in un luogo che ti ha accolto?

Raccontamelo nei commenti o scrivimi: ogni esperienza è un seme che può far crescere questo modo diverso di abitare i luoghi.