Unire più voci. È stato questo, in fondo, l’inizio di tutto. Quando ho iniziato a raccogliere testimonianze per i Dipinti Collettivi della Realtà, non immaginavo certo che, un giorno, mi sarei ritrovata a riflettere su cosa significhi davvero dialogare nel gesto.
Il mio percorso artistico è iniziato non tanto quando ho preso in mano un pennello, ma quando ho imparato a entrare in risonanza con le voci che raccoglievo per creare il dipinto. A non fermarmi al loro significato immediato, ma a lasciarmi attraversare dal loro battito. Ho dovuto trovare un mio modo per creare un legame che andasse oltre la spiegazione e diventasse un gesto di ascolto autentico, di accoglienza dell’altro, di sintesi dell'incontro.
Per farlo ho dovuto in primis lavorare su di me: sul mio giudizio. Ho dovuto imparare a riconoscerlo, a capire in che forme si mostrava, dove si camuffava e dove si nascondeva. Non l’ho affrontato tutto ovviamente, non basterebbe una vita, ma direi almeno la parte più manifesta. Questo esercizio è nato sì nella pittura, ma ha finito poi per abbracciare ogni dimensione della vita. È stato come scoprire un linguaggio nuovo, che mi ha permesso di comunicare in modo diverso con ogni cosa ma, soprattutto, di creare legami con l'attorno che non fossero basati su informazioni, opinioni o necessità.
Dipingere è stata la mia scuola, e non dico di pittura. Quelle voci sono state il vento che ha spinto le mie intenzioni avanti. Capisco forse solo ora ciò che quel gesto mi ha trasmesso: ad ascoltare per sentire, a conoscere per accogliere (e non per giudicare), e infine a tracciare per liberare. E, come detto prima, non sto parlando solo di pittura. Forse è per questo che oggi riesco a portare quello stesso gesto anche nella creazione delle parole collettive e presto in passeggiate urbane, dove il gesto diventerà addirittura cammino, ascolto e presenza – sempre collettiva, ovviamente. A questi dipinti insomma devo davvero molto. Mi hanno insegnato un linguaggio che ha poco a che fare con il gesto del dipingere ma molto con lo stare nel mondo, col mondo.
Proprio mentre prendevo gli appunti per questo articolo, mi è tornata in mente la storia della Torre di Babele. Si dice che sia stata costruita per separare gli uomini, per dividere le lingue, per frammentare. Alla luce di quanto ho scritto, mi sono chiesta se invece il senso non fosse un altro: se, in quella molteplicità, non si potesse nascondere un invito a trovare un nuovo modo di parlare, di comunicare e di stare insieme. A volte si dice che il problema contiene anche la soluzione: forse è proprio nella diversità delle espressioni che può nascere un linguaggio più profondo, che non impone e non giudica ma accoglie. Non un linguaggio per avere ragione o prevalere, ma semplicemente per esserci.
Nei dipinti collettivi, l'intenzione di esserci è diventata una forma di comunicazione muta ma probabilmente la più imponente. Le tele sono luoghi dove le voci, pur senza dialogare tra loro nel senso tradizionale, riescono a comunicare grazie alla sola intenzione di stare insieme. Sono dei cori polifonici che, pur se sfaccettati, trovano unità nel condividere uno spazio, un tempo e un gesto, colti direttamente dalla propria biografia.
Mi sono chiesta più volte cosa immortalino davvero. O cosa evochino. Certo, ogni dipinto rappresenta un tema — la Luna, il Sole, l’Equinozio, la Fenice — ma non si finisce lì. Ogni tela è un campo in cui le voci si sedimentano e si intrecciano, generando un nuovo linguaggio. Non è un linguaggio fatto di spiegazioni ma di sfumature, di intuizioni e di risonanze. Questi dipinti, insomma, non sono solo pittura. Sono una soglia. Un invito a lasciarsi attraversare da ciò che resta invisibile ma vibra dentro ogni voce. Raccontano la possibilità di stare insieme pur restando diversi, di trovare senso senza ridurlo a un’unica verità per tutti.
Il mio lavoro è stato ed è un costante tentativo di restituire al mondo la sua capacità di rispondere. Come forse accadeva un tempo, quando il sacro sapeva farsi spazio tra le pieghe dell’esperienza, o come accade oggi — almeno a tratti — quando la risonanza ci sorprende in un momento di ascolto profondo. O come potrebbe accadere domani, in una forma che ancora non conosciamo, ma che nasce proprio da qui: dal tentativo di provare ad accogliere, ascoltare e intrecciare.
I dipinti collettivi non hanno la pretesa di insegnare, ma desiderano piuttosto offrire o creare le condizioni affinché si possa ancora imparare. Non a spiegare, ma a far emergere. Non a unire in modo forzato, ma a dare forma a un coro in cui ciascuno possa portare la propria voce senza paura di non essere capito o, peggio ancora, giudicato.
Oggi non dipingo più se non su commissione. Quel gesto si è trasformato, ha trovato altre strade, altre forme per espandersi nel quotidiano. Ma quei dipinti restano, come segni di un percorso che ho attraversato e che continuerò a raccontare.
Quei dipinti sono tuttora disponibili: per chiunque voglia vederli, ascoltarli, acquistarli, o anche per una realtà che li voglia esporre con interesse sincero, accogliendo il percorso e le voci che hanno contribuito a crearli. Perché, alla fine, è questo che conta: scoprire che, pur utilizzando parole diverse, possiamo ancora intenderci. Che il mondo non è muto e non ha mai smesso di chiamarci. E che, forse, siamo solo noi che dobbiamo tornare a parlargli, e a rispondergli.
Lieti momenti
Giada
P.S. La foto mostra tre dei quattro dipinti della serie #rivoluzioneterrestre: Solstizio Inverno, Equinozio Primavera e Solstizio D’Estate A completare la serie manca Equinozio D’Autunno. Sono dedicati al movimento interiore ed esteriore che ci permette, ogni giorno, di scegliere la direzione giusta del nostro cammino.