Scrivere durante un concerto di Jan Garbarek, ed è subito jazz

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Ecco cosa accade quando hai un taccuino fra le mani mentre sul palco si esibiscono:

  • Jan Garbarek al sassofono
  • Rainer Brueninghaus alle tastiere
  • Yuri Daniel al basso
  • Trilok Gurtu alle percussioni

Pensieri lasciati scorrere liberi durante il concerto di Jan Garbarek di mercoledì 18 luglio 2018, presso il centro Rondo a Pontresina, nell'ambito della rassegna Festival da Jazz.

La profondità dello smeraldo riporta all’onda della carne. Tengo uno sguardo di cane e le braccia dei vinti. Mi arriva odore di stracci e inchiostro; è jazz, ma un jazz blu.

Vento, oceano e fondali: un gabbiano oltrepassa i coralli. Un coperchio di cielo si appoggia sul mare.

Una pagliuzza di brace si alza nell’aria. Dalle stelle fuoriescono bolle di sapone che vanno a scoppiare sul gabbiano trasformandolo in terra, e si fa isola. Sabbia, coriandoli di quarzo, riflessi che immortalano uno stroboscopio impazzito. Tuoni dolci come caramelle di pioggia; il gabbiano vive.

Su un treno in città. Finestrini appannati, mele schiacciate, mele leccate. Impronte di ricordi accartocciali restano abbandonati sotto i sedili. Ad ogni curva si accumulano in un angolo; rotolano alle fermate e durante le partenze. Nel loro peregrinare sfiorano piedi e zampe, cicche e cuori. Prossima fermata: ieri. Il sole è un bigliettaio che oblitera pensieri pagati a rate, mai scaduti.

Schegge di piedi, aghi nel suolo: dimore per semi, guanti per dita. Manciate di polpa, succo di terra e occhi di foresta. Profili di anime sdraiate al suolo osservano aquiloni trattenuti da città lontane. Zattere di sospiri approdano su spiagge brulicanti di gesti intonsi ancora impacchettati in quei farò che mai li scarterà. Cigni di panna nuotano in laghi di coca rossa, bambini riempiono nuvole con noccioli di ciliegie sputati. Piove sugli aquiloni; germogliano le mani.

Sono nel timpano del mondo.

Gomitolo di lana. Medusa. Una tovaglia di plastica in giardino su cui comincia a piovere; olive in una botte.

Ci stanno suonando: noi tamburi di carillon.

Re Lear.

I nostri organi sono immobili, collegati al palco attraverso fili su cui sono appese sagome di uccelli incapaci di volare. Cadono fusi su cui ci pungiamo: principi si addormentano, il bosco echeggia.

Il Jazz sfinisce: non hai più una fine ma sfinisci, verso l’infinito.

Applausi. Standing ovation. Fine.