2018: il mio discorso di inizio anno

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È come stare su una landa, un luogo, un lontano. Salire sul monte più alto, guardarsi attorno e pronunciarlo da lì, il discorso di inizio anno. Vedo le nuvole basse all’orizzonte, aperte quel tanto da lasciar passare la luce del sole, in formazione raggi. Raggi di ruote che girano all’infinito e mai sostano, per me e per altri che sono, o che verranno. Sotto c’è lei: la mia terra. È un territorio fatto di tentativi, sbagli, persone, storie, esperimenti, soddisfazioni, scoperte, ricordi e salti. Qualche fiume e un lago; un bagliore. Qualche collina e qualche albero. Una foresta abitata e un sentiero da raccogliere. Canti che arrivano da altrove. Mani che crescono nei prati. Petali di parole su cui soffiare. 

E poi tane abitate o pronte da occupare, notti in bottiglia e stelle nel camino. Del vento, gli occhi chiusi. Niente pale, vanghe o zappe, ma sogni che sanno dove attecchire; occorre fidarsi del loro vagare, o sparire. Un baratro di alito caldo che porta ghiaccio nel sangue. Il sole: quello negli occhi che trasforma il controluce in ombre da ritagliare, con le dita. Colori sparsi al suolo. Muschio sulla pelle per sapersi orientare; un becco rapace da ascoltare. Soffice afferrare di respiri trattenuti. L’odore delle zanzare, la lunghezza di una schiena. Tentazioni di lucidità appaganti da aspirare. La musica. Uno specchio per raggiungere il mare. Il sapore delle perle racchiuse attorno a momenti accantonati. Una casa. Un atelier. 

Terra dal giusto sapore, che nel sorso del brindisi osservo non per cambiare, ma per comprendere. E da qui pronuncio: “Del qui e del domani, del possibile e del non ci arriverò, che il risuonare dei nostri calici uniti giunga come lo schiocco di un bacio dietro l’orecchio di nuove intenzioni. E se di questo bere avrò di che ubriacarmi, che siano bollicine di esistenze in movimento verso l’alto, per solleticare volti, affinché il cielo possa sorridere, sorriderci e continuare a sorprenderci, sempre”.

Siate chi siete, e che 2018 sia.